Michele Vacchiano Cultural Photography

Il "tip" del mese

Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere più divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo

Settembre 2016

Fotografia e/è cultura: Il “deserto” della Scozia

In questa serie, che abbiamo provocatoriamente chiamato “Fotografia e/è cultura” racconteremo ogni volta le modalità di formazione (non solo tecniche) di una fotografia.
Lo scopo è quello di dimostrare che dietro ogni immagine c’è sempre una storia; che il percorso fotografico non inizia con lo scatto, ma molto prima, con un attento studio del soggetto, della sua evoluzione storica, della sua funzione, del suo rapporto con l’ambiente che lo circonda.
La fotografia, insomma, è un viaggio che parte dalla conoscenza del soggetto per giungere alla sua trasfigurazione e alla sua trasformazione in un’opera capace di comunicare allo spettatore non tanto l’esistenza del soggetto stesso, quanto piuttosto l’intimo rapporto (fatto non solo di emozione, ma anche di sapere; non solo di cuore, ma anche di cervello) che il fotografo ha saputo instaurare con esso.
Solo in questo modo l’autore potrà strutturare un messaggio capace di sorprendere ed emozionare lo spettatore, proponendogli nuovi e stimolanti percorsi di lettura.

Nel mese di aprile ho compiuto un tour nelle Highlands scozzesi, da Inverness (sul Mare del Nord) alla costa atlantica e poi fino ai fiordi dell’estremo nord, per ritornare infine a Inverness attraverso l’interno.
Ciò che più mi ha colpito è stata la quasi totale assenza di segni della presenza umana, se si escludono poche case sparse, minuscoli villaggi sulla costa e migliaia di pecore che pascolano nella brughiera deserta, apparentemente abbandonate a loro stesse, senza la presenza visibile di pastori o di cani. Così si possono percorrere decine di miglia senza incontrare alcun segno lasciato dall’uomo.
Spesso si incontrano castelli in rovina, o resti di muri a secco seminascosti dalla brughiera, dimostrazione evidente che un tempo c’erano case, terreni, fattorie, ma soprattutto una vita sociale.
Invece oggi le Highlands sono di fatto una brughiera desolata, popolata da cervi e – soprattutto – pecore.

Non si può fotografare un territorio senza conoscerlo: perciò, se si vogliono fotografare le Highlands e i loro paesaggi, bisogna cercare di capire che cosa è accaduto per renderle così come sono adesso.

Per farlo, dobbiamo tornare indietro nel tempo, a un’epoca in cui la società scozzese era regolata dal sistema dei clan.
La parola gaelica clann significa “stirpe”, “famiglia”, ma anche “bambino” (gli appassionati di linguistica comparativa comincino ad interrogarsi sulle possibili affinità con la parola etrusca clan, che significa “figlio”).
Il clan era una comunità di persone, solitamente (ma non necessariamente) accomunate da vincoli familiari e legate con patto di fedeltà al capo del clan.
La terra era considerata patrimonio comune e gestita secondo un sistema cooperativo: il capo del clan assegnava la terra da coltivare a gruppi costituiti da una decina di famiglie: i baile. In cambio, chiedeva ai contadini di servire militarmente il clan in caso di necessità e di versare una percentuale del raccolto.
La terra coltivabile era suddivisa in strisce, chiamate rigs, assegnate alle famiglie in base a un sorteggio annuale (runrig): in questo modo i terreni meno produttivi toccavano a tutti, a turno, e nessuno veniva penalizzato più degli altri.
Nel 1687, re Giacomo II d’Inghilterra (e VII di Scozia) decretò la libertà di culto in tutto il regno (Declaration of Indulgence): in pratica, protestanti e cattolici potevano praticare la loro fede al pari degli anglicani.
Il parlamento (a maggioranza anglicana) non gradì il provvedimento di un re cattolico (ma paradossalmente capo della Chiesa d’Inghilterra), sospettando che egli volesse ripristinare l’odiato cattolicesimo.
Quando poi l’erede del re fu battezzato con rito cattolico, il parlamento destituì Giacomo e offrì la corona al protestante Guglielmo d’Orange.
I sostenitori di Giacomo, detti giacobiti, ingaggiarono una lunga lotta contro il governo, lotta che divenne ben presto non solo politica, ma anche religiosa e culturale: i giacobiti intendevano ripristinare il dominio degli Stuart, antica e nobile casata locale, mal sopportando che sul trono sedesse un sovrano straniero.
Nelle Highlands, in particolare, fu evidente il conflitto fra la struttura sociale tradizionale e il governo centrale, che intendeva demolire il sistema dei clan per assumere il completo e incondizionato controllo del territorio.

La lunga serie di campagne militari con cui i giacobiti tentarono invano di ristabilire il trono degli Stuart assunse spesso connotazioni brutali.
Nel 1691, allo scopo di reprimere le rivolte giacobite, re Guglielmo promise un’amnistia generale, a patto che i capi dei clan giurassero fedeltà alla corona entro il primo gennaio 1692.
Per una serie di contrattempi e di fraintendimenti, il capo del clan dei MacDonald di Glencoe, MacLain, giunse a prestare giuramento con tre giorni di ritardo: una ghiotta occasione per punire il clan dei MacDonald (da sempre difficilmente gestibile), e dare al contempo un chiaro segnale a tutti gli altri.
Sir John Dalrymple, segretario di stato per la Scozia, inviò 120 soldati a Glencoe con il pretesto di riscuotere le tasse.
Poiché in Scozia l’ospitalità è sacra, i soldati furono alloggiati nelle case dei MacDonald.
Il 13 febbraio (dopo aver vissuto come ospiti per dodici giorni) i soldati diedero corso all’ordine ricevuto: alle cinque del mattino passarono a fil di spada tutti i MacDonald inferiori ai 70 anni, donne e bambini compresi, massacrando 38 persone.
Quelli che riuscirono a fuggire si dispersero nelle colline, dove altre 40 persone morirono assiderate.
Il massacro di Glencoe provocò una sollevazione popolare e la destituzione di Dalrymple.
Ancora oggi, ogni 13 febbraio, i discendenti del clan dei MacDonald si ritrovano a Glencoe, per depositare una corona di fiori sul monumento che commemora il massacro.

Una cinquantina d’anni dopo, il 16 aprile 1746, ebbe luogo lo scontro finale (che fu anche l’ultima battaglia campale combattuta su suolo britannico) fra i sostenitori degli Stuart e le truppe lealiste.
Nella battaglia di Culloden (Blàr Chùil Lodair in gaelico), presso Inverness, i sostenitori di Carlo Edoardo Stuart (detto “il giovane pretendente”), furono sconfitti dal Duca di Cumberland, figlio di re Giorgio II.
Milleduecento scozzesi, male armati e legati a strategie e metodi di combattimento medioevali, furono massacrati in 68 minuti dalle addestrate ed efficienti truppe inglesi.
Il massacro continuò nei giorni successivi: Cumberland si recò a Inverness con la spada ancora sporca di sangue, in modo da dare un esempio, e lì fece giustiziare diversi prigionieri di alto rango.
Altri furono gettati in carcere e lasciati morire, o inviati a Londra e torturati fino alla morte.
Lo spietato comportamento del principe gli fruttò il soprannome di Billy the Butcher, “Billy il macellaio”.
Fino agli inizi del XX secolo, la quarta strofa dell’inno God save the King, poi abolita, recitava: “Signore, fa’ che il Maresciallo Wade / possa con il tuo potente aiuto / ottenere la vittoria. / Possa egli soffocare la sedizione e come un torrente travolgente / schiacciare i ribelli scozzesi. / Dio salvi il re.”

La battaglia segnò la fine della struttura sociale dei clan e diede inizio a un nuovo orrore: le Highland Clearances.
Il re vietò ai capi dei clan di possedere milizie private; furono proibiti il tartan (la stoffa multicolore che caratterizzava gli appartenenti a un clan), la cornamusa e l’uso della lingua gaelica: l’intento era quello di smantellare non soltanto la società, ma anche la cultura scozzese.
I proprietari terrieri, convinti che l’allevamento delle pecore fosse più remunerativo dell’agricoltura, cacciarono i contadini dalle loro terre, confinandoli sulla costa (dove divennero pescatori di aringhe o raccoglitori di alghe), o in piccoli poderi poco redditizi (croft), da dove potevano essere sfrattati in qualsiasi momento.
Molti si trasferirono in città alla ricerca di condizioni più umane, altri andarono a morire nelle miniere, moltissimi presero la via delle Americhe.
Le Highlands si spopolarono, trasformandosi in una vasta brughiera costellata di laghi e torbiere e popolata soltanto da immense greggi di pecore.

Oggi i pochi abitanti vivono in fattorie sparse o in piccoli villaggi costieri, dediti alla pastorizia, alla pesca o al turismo (ma solo durante i mesi estivi). Inoltre gli scozzesi non hanno sufficiente partecipazione ai profitti provenienti dal petrolio del mare del Nord (questo è uno degli argomenti sostenuti dai fautori dell’indipendenza).
È facile immaginare perché le condizioni economiche della popolazione siano mediamente difficili. Secondo una recente indagine (2014), negli ultimi 30 anni la percentuale di famiglie cadute al di sotto della soglia di povertà è passata dal 14% al 33% del totale. Queste famiglie non possono permettersi condizioni abitative decenti, non riescono a sostenere le spese di matrimoni o funerali, non possono praticare sport o attività ricreative, mentre i bambini non possono partecipare alle gite scolastiche né andare in vacanza per almeno una settimana all’anno.

Soltanto con queste conoscenze sul territorio e sulla sua storia possiamo consapevolmente e responsabilmente organizzare e realizzare al meglio un reportage fotografico.

Dal punto di vista fotografico non ci sono particolari precauzioni, se non per il fatto che il tempo spesso uggioso e nuvoloso rende necessari tempi di otturazione piuttosto lunghi. È pertanto necessario utilizzare il cavalletto, o comunque assicurarsi un appoggio stabile. Incrementare la sensibilità impostando un valore ISO elevato non è consigliabile, se si vuole mantenere la nitidezza richiesta dalla fotografia di paesaggio.

Più difficile, invece, governare i contrasti in postproduzione, dati i cieli spesso eccessivamente luminosi e slavati. In questo caso non resta che dedicare al cielo uno spazio minimo all’interno dell’inquadratura. Al contrario, la presenza di nuvole consente delle eccellenti composizioni, a patto che si sappia come esaltare i contrasti e la “pastosità” delle nubi in fase di trattamento. Il pennello per la regolazione locale e il filtro digradante rappresentano in questo caso gli strumenti di elezione.

Non dimentichiamo infine la possibilità di realizzare grandiose panoramiche ricorrendo alla tecnica dello stitching, che non solo permette di realizzare immagini spettacolari, ma consente anche di superare i limiti fisici imposti dalle dimensioni del sensore, ottenendo così file (e stampe) di grandi dimensioni.

Alla prossima.

Queste e molte altre notizie sulla Scozia, insieme alle immancabili fotografie, si possono trovare nel nuovo libro fotografico di Michele Vacchiano I cieli della Scozia, scaricabile in formato PDF a questo indirizzo o acquistabile in formato cartaceo (album di grande formato) a questo indirizzo.

Gallery

Vitelli di razza Angus intorno a una mangiatoia. Arbusti fioriti sul fiordo denominato Loch Broom. Il porto peschereccio di Ullapool, cittadina di 1400 abitanti sul Loch Broom. Pecore nella brughiera presso il villaggio di Elphin (sullo sfondo). Le rovine di Ardvreck Castle sul Loch Assynt, intorno al quale si aggirano i fantasmi dei MacLeod. Lungo le strette strade delle Highland è frequente imbattersi in copertoni fissati a pali che avvisano della presenza di pecore e invitano gli automobilisti a rallentare. Spiagge e scogliere presso Durness, nell’estremo nord. Rovine sul Loch Eriboll. Una cabina telefonica nel nulla sulle rive del Loch Eriboll. Capanno sul Loch Loyal verso sera.