L'articolo del mese
NOVEMBRE 2017
Nascita di una fotografia: come stuzzicare un bisonte e uscirne vivi
Agosto 2017, Yellowstone National Park, Wyoming.
Sto percorrendo in auto una delle strade che attraversano il parco, quando mi imbatto in una mandria di bisonti.
Non è la prima volta che li vedo, ma in tutte le precedenti occasioni – sia qui che in Arizona o nello Utah – li ho sempre osservati da una certa distanza: di solito non amano avvicinarsi troppo all’uomo e alle strade che l’uomo frequenta.
A Yellowstone, invece, si sono abituati alla presenza dei turisti e spesso li si trova a pascolare ai bordi delle strade.
Addirittura, a volte, camminano direttamente sull’asfalto, come fanno le mucche nostrane, creando lunghe file di auto costrette a procedere a passo d’uomo, anzi, a passo di bisonte.
E guai a tentare di sorpassarli o – peggio – suonare il clacson: si potrebbe provocare una reazione molto stizzita e decisamente sgradevole per la controparte umana.
Il fatto che siano abituati all’uomo, infatti, non significa che siano pacifici e mansueti: all’ingresso del Parco Nazionale, i ranger istruiscono i turisti non solo sulla pericolosità degli orsi (incontro improbabile lungo le strade e sui percorsi turistici, ma possibile lungo i sentieri meno battuti e i percorsi di trekking), ma anche sull’aggressività dei bisonti, molto territoriali e quindi facilmente irritabili, anche sotto quella loro apparenza svogliata e incurante delle cose del mondo.
Bene, la mandria che ho incontrato sta pascolando molto vicina alla strada, permettendomi di scattare fotografie ragionevolmente ravvicinate anche con l’85 millimetri.
Ma sul lato destro della strada, dove gli alberi sono più fitti, scorgo un grosso maschio e una femmina che – isolati dal resto del branco – brucano tranquilli a una decina di metri da me.
Lungo la strada si sono fermate diverse auto e ovviamente tutti scendono per osservare e fotografare.
Passa un’auto dei ranger: “Attenzione, non avvicinatevi, sono molto aggressivi, specialmente in questo periodo”.
Ma il mio grosso maschio e la sua signora, così vicini, rappresentano un’occasione troppo ghiotta.
Attraverso la strada e mi nascondo dietro il tronco di un lodgepole pine, abbastanza massiccio per nascondermi.
Ma mi accorgo che il tempo di otturazione è troppo lento per tentare una foto a mano libera: devo spostarmi e appoggiarmi a una roccia, per cercare di tenere ferma la macchina.
Voi dite: ma proprio tu che ci insegni a usare sempre il cavalletto, questa volta non l’avevi?
No, non l’avevo, perché la maggior parte delle compagnie aeree non lo accetta in cabina e costringe i viaggiatori a imbarcarlo come valigia, mentre io preferisco viaggiare col solo bagaglio a mano, anche su lunghi tragitti e per lunghi soggiorni.
Detesto le code al baggage claim in attesa della valigia, che a volte rischia di essere spedita in qualche strano aeroporto dell’Uzbekistan invece che a Salt Lake City (tranquilli, già successo), costringendomi a deprimenti perdite di tempo che sconvolgono tutto il piano di viaggio.
Senza contare che – spesso – le coincidenze sono risicate, e io non voglio perdere un volo solo perché la valigia è in ritardo.
Per cui mia moglie e mio figlio viaggiano con un trolley ciascuno, contenente gli abiti di tutti, e io con il mio zaino, contenente esclusivamente la mia attrezzatura fotografica.
Devo ammettere che mia moglie è eroica, da questo punto di vista, oltre che abilissima nello scegliere (e nello stipare in un piccolo spazio) soltanto ciò che è davvero indispensabile.
Del resto, se proprio manca qualcosa, si può sempre comprare in loco.
Così faccio di solito anche per il cavalletto: lo acquisto presso l’immancabile supermercato presente persino nel più sperduto villaggio del cuore dell’Arizona e poi lo abbandono in albergo, o lo rivendo come usato se riesco a trovare un negozio di fotografia.
Ma questa volta non l’avevo fatto: avrei lavorato prevalentemente di giorno, sotto il sole squillante del Far West; avrei lavorato tra rocce e foreste dove sono frequenti i punti d’appoggio…
Ma adesso, eccomi alle prese con due bisonti nel fitto di un bosco, con un trentesimo di secondo a f/8 e 400 ISO!
Alzare gli ISO? Manco a parlarne, con un sensore grosso e permaloso come quello della 5DS R: già a quattrocento il rumore è visibile!
Mentre manovro tra le roccette e il terreno dissestato per spostarmi dall’albero al sasso affiorante, tutta la gente schierata sull’altro lato della strada si mette a gridare sbracciandosi nella mia direzione: allontanati, sei fuori di testa, stai facendo una cosa pericolosissima, sei al di sotto dei canonici venti metri che rappresentano il limite di sicurezza per non far incavolare un bisonte.
In effetti il grosso maschio e la sua consorte iniziano a sbuffare e a spintonarsi l’uno con l’altro: si vede che sono nervosi.
Devo essere veloce e lo sono: mi accuccio dietro la roccia, appoggio la reflex e scatto.
Il rumore dello specchio allerta mister buffalo, che smette di brucare, mi guarda fisso e abbassa la testa: okay, adesso è davvero ora di andare.
Scendo velocemente sulla strada e l’attraverso, ristabilendo la distanza di sicurezza un istante prima che il bestione decida di caricare.
Mentre risalgo in macchina, un tizio equipaggiato con un teleobiettivo che neanche il telescopio Hubble mi avvicina e mi redarguisce col tono che si riserva ai deficienti: hai corso un bel rischio, quello era un maschio adulto.
Come se non lo sapessi.
Però è vero, magari non lo faccio più.
Alla prossima.