Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

GENNAIO 2020

Due telefonate

A volte si ricevono richieste strane.
Ma quando due richieste strane vengono ricevute nello stesso giorno, allora vale la pena raccontarle.

Prima telefonata di oggi.
“Pronto?”
“Parlo con Michele Vecchiano?”

Sinceramente non sopporto le persone che quando telefonano non si presentano.
Io quando chiamo qualcuno rispetto questa sequenza: prima saluto (buongiorno, buonasera, mai “salve” che sa di svacco), poi mi presento con nome e cognome, infine chiedo se il mio interlocutore ha tempo da dedicarmi o se devo richiamare più tardi.
Perciò, quando chi mi telefona non si presenta, e anzi mi chiede subito chi sono io, allora mi irrito.
Lo so, sono vecchio, irascibile e all’antica, ma sull’educazione non transigo.

La seconda cosa che mi fa saltare i nervi è quando qualcuno sbaglia il mio cognome.
Non mi chiamo Brzelzinskij, mi chiamo Vacchiano.
Il mio cognome è composto da una serie di fonemi tutti appartenenti alla lingua italiana, compresa la doppia “c” e la “h” di Pinocchio, nome che persino gli americani sanno pronunciare, pur se a modo loro.
Ma se il mio caso è drammatico, quello di mia moglie è tragico.
Lei si chiama Claudia Savant Levet.
Ovviamente si guarda bene dal pronunciare il suo cognome in francese, come sarebbe giusto, rassegnandosi a pronunciare un’italianissima “a” bella larga e la “t” finale.
Nonostante questo, è spessa costretta ad arrendersi e a vedersi registrata come “Samanta”.
Però io mi chiedo: se una ti dice “Savant”, che problemi hai a scrivere S-A-V-A-N-T?

Divagazioni a parte, torniamo alla telefonata.
Alla domanda – doppiamente irritante – del mio sconosciuto interlocutore rispondo subito:
“Scusi, lei chi è?”
“Sono il direttore dell’ecomuseo di ***. Diversi anni fa lei ha fatto due mostre nella nostra regione, una al Castello Ducale di Vigevano e l’altra a Crema, ospite del locale Club Alpino. Vorremmo riproporre una sua mostra anche da noi”.
Devo dire che la proposta mi coglie di sorpresa: sono almeno dieci anni che nessuno mi chiede di allestire una mostra personale.
All’epoca lavoravo su pellicole piane con apparecchi a corpi mobili, ma oggi non potrei più riproporre le foto di allora: è cambiato il mio modo di lavorare, e anche il mio stile, per cui dovrei ripensare daccapo a tematiche e modalità di presentazione.
Dovrò scegliere nuove fotografie, stamparle, farle incorniciare o montare su supporto rigido…
Ma la cosa mi attizza, perché significherebbe riprendere in mano un lavoro complesso e creativo che – sinceramente – un po’ mi manca.
Rispondo che sono disponibile e chiedo ulteriori dettagli: quando, dove, quante fotografie, in che tipo di locali…
Il direttore risponde cortesemente e con dovizia di particolari a tutte le mie domande: la mostra sarà il prossimo ottobre, per cui ho tutto il tempo per lavorarci.
“Va bene” rispondo, “Mi faccia avere una richiesta ufficiale, anche via mail, e io le risponderò inviandole il preventivo”.
Silenzio.
“Pronto? È ancora lì?”.
“Ah. Ma perché… costa?”
Gli spiego, con gentilezza, che stampare delle fotografie, farle incorniciare, portarle fino a ***, allestire la mostra, presiedere all’inaugurazione, rispondere alle domande del pubblico, essere presente e disponibile e alloggiare fuori sede sono attività che richiedono non soltanto un impegno economico, ma anche un impegno fisico e psicologico, oltre che un dispendio di tempo, risorsa preziosa e sempre limitata per un professionista.

È vero, da giovane ho fatto un paio di mostre a titolo gratuito, e anzi spendendo del mio per la stampa e l’incorniciatura delle fotografie.
Tutti lo facciamo quando si tratta di farsi conoscere, ma oggi – grazie a un serio, faticoso, incessante lavoro di cui anche quei primi sforzi fanno parte – non è più il mio caso: le ultime personali che ho allestito mi sono state pagate, e anche bene.

Ciò non toglie che io accetti talvolta di lavorare a titolo gratuito, ad esempio per interventi di divulgazione della fotografia presso biblioteche o istituzioni culturali della mia città, o anche per piccole mostre personali.
Dopo tutto mi diverte, mi gratifica, e anche se spendo soldi per la stampa delle fotografie, si tratta di somme non ingenti.
Anche il lavoro necessario all’allestimento non è gravoso: si tratta sempre di poche opere, esposte in locali e su strutture già pronte; impegno mezza giornata e alla sera sono a casa.
E soprattutto, è un’attività che scelgo io, perché mi piace e perché so che potrebbe piacere a chi verrà a visitare la mostra.
Ma se devo realizzare decine di stampe, portarle a mie spese a 170 chilometri di distanza, dormire fuori sede almeno una notte e dedicare un intero giorno all’allestimento e una serata all’inaugurazione, allora chiedo dei soldi.
Ditemi che sono avido.

Ma ammettiamo pure che il tempo e l’impegno possano non essere retribuiti: tutto sommato una mostra è un evento promozionale, che in teoria (molto in teoria) porta fama e nuovi clienti.
E soprattutto – come ho detto – è un’attività divertente e gratificante, che solletica non poco la congenita vanità di noi fotografi.
Ammettiamo quindi che questi aspetti, per così dire “immateriali”, possano anche non comparire in fattura.
Ma l’altro aspetto, quello dell’impegno economico, non può essere regalato, a meno che (come già detto) non lo si consideri un investimento, impegnativo ma necessario a farsi conoscere.
Per quanto mi riguarda, non sentendo il bisogno di farmi conoscere, non ho nessuna voglia di spendere soldi solo per far fare bella figura al direttore dell’ecomuseo e all’assessore alla cultura della città di ***.

Comunico pertanto al mio interlocutore che mi accontenterò del semplice rimborso delle spese sostenute (e correttamente documentate): stampa delle fotografie, incorniciatura, viaggio e soggiorno.
Ma è inutile: come mi aspettavo, il direttore invoca bilanci desertici, leggi di bilancio soffocanti e tutte le catastrofi che – con sacrosanta ragione, peraltro – i funzionari degli enti territoriali lamentano ormai da un paio di decenni.
Insomma, non ci sono soldi nemmeno per pagarmi un bed and breakfast, per non parlare del resto.
Okay, abbiamo entrambi sprecato un quarto d’ora, ma io mi chiedo: come puoi pretendere che un professionista affermato lavori completamente gratis, e anzi rimettendoci del suo?

Seconda telefonata di oggi.
Questa la faccio io, per contattare un tizio che – via mail – mi ha chiesto un corso di formazione individuale.
Va bene, ho ancora giorni liberi, per cui faccio le solite domande a scopo conoscitivo: a che livello è, a che livello vuole arrivare, se ha temi particolari che vuole sviluppare.
Mi dice che è già bravo, perché a sua moglie piacciono le sue foto (ah, beh, allora!), per cui ha aperto una pagina Facebook dove mette le sue foto e anche gli amici gli dicono che è “ganzo” (espressione sua).
Impiega un quarto d’ora per dirmi che ha una reflex “non grossissima e pesantissima” (ma che? Adesso si vendono a peso come le patate?) e che tutti gli dicono quanto è bravo e quanti “like” mettono sui suoi post.
Ok, allora che vuoi da me?
Vuole affinare la sua competenza, soprattutto nel campo della postproduzione.
Per questo ha pensato alla possibilità di rivolgersi a un professionista per avere delle lezioni, ovviamente a titolo gratuito perché “sa com’è, oggi come oggi…”.
Questa volta sono io a restare ammutolito.
Ma recupero presto il mio consueto aplomb e gli suggerisco di leggere la mail che gli spedirò in risposta alla sua: lì troverà il preventivo dettagliato e il costo orario delle mie prestazioni.
Ovviamente non mi richiamerà.
Spero che trovi davvero un “professionista” disposto a dargli lezioni gratis, ma soprattutto gli auguro di ricevere ciò per cui avrà pagato.

Scusate lo sfogo.
Ma domani vado dall’elettrauto, ho giusto la batteria da cambiare.
Ovviamente gli chiederò di non farmi pagare la mano d’opera e – già che c’è – perché non mi fornisce gratis anche la batteria?

Alla prossima.