L'articolo del mese
OTTOBRE 2020
Imparare a fotografare
Nel quarto secolo avanti Cristo, il filosofo cinese Zhuangzi  (contemporaneo di Aristotele) affermava che la nostra vita è troppo limitata  per permetterci di raggiungere la conoscenza, che è di per sé stessa infinita. 
Lo stesso linguaggio è inadeguato e le nostre percezioni ci  consentono soltanto una visione personale della realtà, secondo una prospettiva  del tutto individuale.
Per questo non bisogna avere la presunzione di definire come  vera e valida una qualunque conclusione. 
Per sottolineare l’incertezza e la relatività delle nostre  convinzioni, Zhuangzi propose un esempio divenuto famoso: una notte aveva  sognato di essere una farfalla. 
Al risveglio, si era chiesto se egli fosse veramente  Zhuangzi che aveva appena sognato di essere una farfalla piuttosto che una  farfalla che aveva appena iniziato a sognare di essere Zhuangzi. 
È un esempio paradossale, ovviamente, ma dimostra come nulla  sia più ingannevole dell’apparente stabilità della ragione umana.
Zhuangzi precorre le idee della moderna epistemologia, ma  anche le basi del pensiero scientifico occidentale, delle neuroscienze e – cosa  che mi riguarda da vicino – della semiologia.
Ma… che c’entra un filosofo cinese con la fotografia?
  Okay, facciamo un esempio.
  Quando fotografiamo un qualunque soggetto, non possiamo  sapere come quel soggetto sarà letto e interpretato dallo spettatore. 
  Per quanto ci sforziamo di inquadrare, illuminare, comporre  e trattare l’immagine in modo da darle un significato univoco, la nostra  visione, personale e soggettiva, ben difficilmente sarà condivisa dal  destinatario.
  Se a livello denotativo il riconoscimento di un soggetto è  reso possibile dal patrimonio comune di conoscenze (la fotografia di un  elefante raffigura un elefante, che sarà riconosciuto come tale da chiunque  abbia già visto l’immagine di un elefante), a livello connotativo le cose sono  molto più complesse. 
  L’immagine di un lago al crepuscolo raffigura un soggetto  facilmente riconoscibile, ma capace di suscitare emozioni, ricordi, sensazioni  differenti e addirittura contrastanti: calma, quiete, serenità, ma anche  malinconia, tristezza, fine del giorno e magari della vita.
  La capacità, l’esperienza, le regole che noi mettiamo in  gioco non serviranno a confezionare un’opera dal significato univoco, ma  daranno vita a una proposta di lettura che noi offriamo a chi guarderà e giudicherà il nostro lavoro.
  Perciò la lettura definitiva, l’interpretazione finale dell’opera,  non la dà il fotografo, ma lo spettatore, e solo a questo punto il processo  comunicativo potrà considerarsi concluso.
A proposito di regole, ricordiamoci che esse vanno  conosciute, capite e interiorizzate, ma poi dimenticate.
  Devono agire in modo inconscio, automatico.
  Se ci chiediamo quali regole applicare per realizzare una fotografia,  quali comandi azionare, come comporre la prospettiva o come disporre il  soggetto all’incrocio dei terzi, significa che siamo ancora dei principianti.
  Pensiamo a quello che accade quando si guida: quando  studiavamo per prendere la patente ci chiedevamo quando premere il pedale della  frizione e cambiare marcia, come girare il volante e valutare la distanza  durante una manovra di parcheggio. 
  Adesso che sappiamo guidare, queste cose sono divenute  istintive: siamo concentrati sulla strada, non sul mezzo.
  Allo stesso modo, quando un esecutore improvvisa un brano  musicale, non pensa alla tonalità nella quale sta suonando o a come disporre le  dita sulla tastiera per ottenere un accordo, ma suona e basta, attingendo a un  bagaglio di conoscenze divenuto istintivo e sottostante al livello della  coscienza.
Quando fotografo, la macchina diventa un mezzo trasparente,  che uso e basta, senza chiedermi come farlo funzionare o quale comando azionare  per ottenere il risultato voluto.
  Mentre lavoro non mi chiedo come comporre l’immagine, ma  quando esamino le fotografie che ho scattato vedo che le regole sono state  rispettate, che la posizione dei soggetti è corretta, che nell’inquadratura non  c’è nulla di superfluo, semplicemente grazie a procedure operative ormai  interiorizzate e divenute istintive, che sono entrate in gioco senza che io me  ne rendessi conto a livello cosciente.
Come si raggiunge un simile risultato?
  Come si impara a fotografare?
  Scuole, corsi, attenta lettura di libri e riviste?
  Può darsi, ma certamente non basta. 
  Alcuni corsi a cui ho assistito mi hanno convinto di essere  stati organizzati al solo scopo di spillare
  denaro agli iscritti. 
  Che dopo ne escono più ignoranti e confusi di prima. 
  Per quanto riguarda le riviste, diventa difficile per il  principiante distinguere tra chi lavora per la crescita della fotografia e chi  rappresenta soltanto uno strumento del mercato. 
  E allora come si fa a imparare davvero? 
  Ci sono segreti, trucchi del mestiere?
  No, nessun segreto, nessun trucco. 
Quello che bisogna fare è cambiare mentalità, prima di tutto  smettere di pensare che la fotografia dipenda dal mezzo con cui è stata  realizzata, e che i grandi fotografi siano tali perché usano attrezzature “professionali”.
  Non esistono macchine professionali, la professionalità sta  in chi le adopera. 
  Una Phase One XF in mano a un dilettante danaroso è molto  meno professionale del mio smartphone.
Per cominciare, lasciate a casa la macchina fotografica e  uscite.
  Uscite di casa, ma anche da voi stessi; alzate le natiche  dalla sedia girevole e staccate gli occhi dallo schermo del computer o dal  display dello smartphone. 
  Sconnettetevi dal mondo virtuale e riconnettetevi con il  mondo reale.
Che cosa fate al mattino davanti allo specchio? 
  Vi limitate a farvi la barba in fretta, col rasoio  elettrico, pensando, già irritati, agli impegni della giornata, oppure siete  capaci di godere la carezza ruvida della lama, che passando sul viso traccia  strade regolari attraverso la schiuma soffice e candida come fa lo spartineve  nelle giornate limpide di gennaio? 
  Trangugiate in fretta un caffè bollente o un triste  cappuccino al bar sotto casa consultando compulsivamente il cellulare, oppure  siete capaci di far correre la fantasia sulle spire del fumo che si solleva  pigro da una scodella di latte o da una tazza di tè fragrante e profumato? 
  Nel frattempo, sapete godervi l’essere ancora svestiti, il  profumo della vostra pelle dopo la doccia, il tocco dei piedi nudi sul  pavimento? 
Quand’è stata l’ultima volta che – uscendo di casa al  mattino presto – avete sollevato lo sguardo al cielo per vedere se c’era la  luna? 
  E soprattutto, quanti di voi sanno in quale fase si trova la  luna adesso? 
  Rispondete in cinque secondi senza guardare il calendario.
  Visto?
Ancora una volta, che c’entra questo con la fotografia? 
  C’entra moltissimo. 
  Perché prima di fotografare bisogna imparare a osservare, ma  soprattutto a godere di ciò che si osserva.
  Non soltanto con la vista, ma con tutti i sensi, perché la  fotografia è un’attività totalizzante, che coinvolge l’intero nostro essere.
  Pensate alla semplice percezione del caldo e del freddo. 
  La gente ha perso la capacità di usare la propria pelle come  strumento di ricezione degli stimoli. 
  Usa il riscaldamento d’inverno e l’aria condizionata d’estate  al solo scopo di mantenere costante la temperatura corporea.
  Molti vorrebbero vivere in uno di quei paradisi tropicali  dove regna l’eterna primavera. 
  Sai che palle! 
  Ma il nostro corpo è  fatto per sentire il caldo e il freddo e possiede ottimi meccanismi di termoregolazione. 
  Non parlo, ovviamente, delle situazioni estreme, ma di  quelle delle quali la maggior parte di noi ha esperienza quotidiana.
  Accettate di percepire il caldo e il freddo sulla vostra  pelle, e invece di lamentarvene usate queste sensazioni per capire che tempo  fa, per entrare in contatto con l’ambiente, con l’aria, con il vento e con le  nuvole. 
  Siete fatti di atomi e molecole, della stessa materia che  forma le stelle; l’universo fa parte di voi come voi fate parte di lui.
  Perché rifiutarlo o averne paura?
Nella bella stagione, uscite quando piove. 
  Perché usare l’ombrello d’estate? 
  Perché trovate piacevole la pioggia artificiale della vostra  doccia e fuggite la pioggia del cielo? 
  Se non gettate via l’ombrello non saprete mai quant’è  divertente sentire i goccioloni del temporale che picchiettano sulla pelle,  suscitando crepitii e sciacquii che cambiano di tono a seconda del punto  colpito. 
  Se non siete capaci di sedervi accanto a un ruscello per ascoltare  quante voci ha, per indovinare in quanto tempo quel ramo portato dalla corrente  arriverà davanti a voi, non riuscirete mai a fotografare davvero.
  Perché fotografare non significa riprodurre la realtà, ma  interpretarla.
  Significa tradurre il mondo filtrandolo attraverso la  propria esperienza, la propria capacità di elaborare i dati sensoriali, la  propria fantasia.
  Fotografare vuol dire illustrare non il soggetto, ma il rapporto  sottile (e dialettico) che si è saputo instaurare con lui.
  Comunicare sensazioni, l’odore dell’aria, la voce del vento.
  Ma di più, fotografare significa saper prescindere dal  soggetto per rappresentare un sogno.
  E non lo si può fare se si è smesso di sognare.
  Alla prossima.
Questo scritto costituisce un ampliamento e una rielaborazione di un articolo pubblicato sulla rivista “Nadir” nel gennaio 2000: https://www.nadir.it/pandora/IMPARARE.htm.