Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

MARZO 2019

La fotografia perduta

Sarà perché noi esseri umani amiamo soprattutto ciò che non abbiamo, ma credo che l’unica fotografia che ho irrimediabilmente perduto sia stata la più bella che io abbia mai scattato.
Ero con mio figlio Giorgio e un gruppo di amici al Colle del Nivolet, a più di 2500 metri di quota.
L’idea era quella di salire a piedi verso la Valle delle Meyes, un luogo incantato di pascoli e acque, nelle quali il Gran Paradiso ama specchiarsi nelle limpide giornate di inizio autunno.
Salendo in auto verso il pianoro, avevamo incontrato pioggia e neve, quel nevischio fine e gelato che in quota si trasforma in tormenta.
Gli amici che mi seguivano con la loro auto si chiedevano perché non facessi inversione a U e non tornassi verso il sole tiepido del fondovalle, ma io sapevo che – una volta valicato il colle – avremmo probabilmente trovato un clima diverso.
Infatti, scesi dall’auto, la tormenta iniziò a placarsi.
Non c’era il sole, ma almeno quei minuscoli spilli di ghiaccio gelati avevano smesso di tamburellare sul nostro viso e di trafiggerci gli occhi.
Iniziammo a camminare, dirigendoci verso il gigantesco pianoro d’alta quota che segna il confine tra la Valle dell’Orco e la Valsavarenche, tra il Piemonte e la Valle d’Aosta, all’ombra della Grivola e dei giganti del gruppo del Gran Paradiso.
D’improvviso, subito dopo il laghetto all’inizio del pianoro, vidi la scena più bella che potessi immaginare.
Poco sotto di noi, tra le anse pigre del torrente che indugia e si avvolge creando una vasta torbiera ricca di vita, alcune mucche pezzate stavano pascolando.
Le nuvole grevi di tormenta si stavano aprendo e un pallido sole iniziava a riflettersi sulla superficie delle acque, a far brillare i piccoli diamanti di ghiaccio che imperlavano gli steli dell’erba.
Nessun suono, se non il mormorio del vento e il lontano gorgogliare dell’acqua.
Estrassi la ShenHao dallo zaino, la montai sul cavalletto e la preparai per lo scatto.
All’epoca usavo il sistema Quickload della Fuji: pellicole piane caricate in cartoncini già pronti per essere usati nel dorso Polaroid.
Un sistema molto più veloce, pratico e leggero dei tradizionali chassis.
Scattai velocemente, perché la tormenta stava riprendendo vigore.
Ritirai la macchina nello zaino e mi incamminai verso l’alto, seguito dagli amici sempre più perplessi che sicuramente avrebbero preferito tornare indietro.
Dopo circa mezz’ora di salita la tormenta cessò, come avevo previsto, e un sole dapprima incerto, poi sempre più sfolgorante, iniziò a scaldare le nostre membra infreddolite.
Giunti all’altezza di Pian Borgno, ci trovammo in un altro luogo fatato: una conca erbosa ai piedi dell’Aouillé, dove un torrente, scendendo dall’alto e incontrando una zona pianeggiante di terreno impermeabile, si spandeva allargandosi in mille rivoli che il sole trasformava in nastri di puro argento.
L’Herbetet e la Becca di Montandayné, appena spruzzati dalla prima neve dell’autunno, dominavano il versante opposto della vallata, mentre la vetta del Gran Paradiso indugiava ancora fra le nuvole.
Deciso a immortalare quella bellezza, montai per la seconda volta la ShenHao, ma mentre estraevo dalla tasca dello zaino le pellicole piane, per caricare con una lastra vergine il dorso Polaroid, una folata di vento scompigliò le buste in cartoncino e ne fece volare una nel torrente.
Era, ovviamente, quella che avevo impressionato poco prima, il pianoro incantato con le mucche.
Avrei potuto inseguirla e salvarla: l’acqua era così bassa da non superare la suola degli scarponi.
Invece rimasi attonito a guardare la mia fotografia, forse la più bella della mia vita, che si allontanava cullata dall’acqua gelida del ruscello, prima di unirsi alla fragorosa cascata che – alla fine della conca – precipitava inesorabile verso il fondovalle.

Delle due fotografie pubblicate in calce all’articolo, la prima raffigura la conca ai piedi dell’Aouillé e il ruscello nel quale avevo appena perduto la mia lastra; la seconda ritrae il sottoscritto proprio mentre realizza la fotografia poi perduta (mannaggia quant’ero giovane!) ed è stata scattata dall’amico Fabrizio Accatino, che era con me quel giorno e che ringrazio per avermi concesso di scandire il negativo.

Alla prossima.

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