Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

Febbraio 2017

Come pulire un sensore (e vivere infelici)

Evviva le reflex di ultima generazione che hanno il sensore autopulente!
Non ho mai capito bene come funziona, ma in pratica tutte le volte che spegni la macchina, al sensore viene la tremarella e si scrolla di dosso la polvere.
Dove vada a finire quella polvere e come faccia magicamente a non tornare più, è un mistero che non so risolvere.
Ma da quando possiedo una di queste macchine i miei cieli sono immacolati e non devo più trascorrere le preziosissime ore della mia vita a spolverare le foto come fossi una colf.

Il problema è che tutto questo funziona nel piccolo formato.
Nel medio formato ho un dorso digitale che costa quanto una 500 Abarth ma il cui sensore è fisso e inamovibile come la statua di Ramses a Menfi.
Non trema, non vibra, non si pulisce da solo, resta lì fermo e gigantesco che mi ci potrei specchiare per farmi la barba, ma dopo due volte che cambio l’obiettivo si riempie di schifezza.
Quindi bisogna pulirlo.
Ovviamente, agli inizi ho cercato di farlo pulire da gente più esperta di me.
Il problema è che molte aziende e laboratori specializzati, quando sentono l’espressione “medio formato”, si raggomitolano su se stessi come fa l’armadillo per sfuggire al giaguaro, per bene che vada ti attaccano il telefono, o in alternativa ti chiedono cifre con le quali potresti buttare via l’intero dorso e comprarne uno nuovo, come fanno i miliardari quando si accorgono che l’orologio dell’auto è rumoroso: buttano via la Rolls e ne comprano un’altra.
Non che questo non accada anche nel piccolo formato: quando vado al centro di assistenza a far pulire il sensore della mia reflex devo prima prendere un Tavor, altrimenti non sarò preparato alla botta.
Ed è inutile fargli notare che il giorno prima a mio figlio hanno chiesto la metà: la mia è una reflex “professionale” e la sua no.
Mi chiedo con che razza di criterio si decide che una reflex di piccolo formato sia o no professionale: per me la professionalità sta in chi la adopera, non nella macchina, ma tant’è, a cercare di discutere non se ne esce vivi (e poi lei ha una partita IVA, no? Quindi scarica l’IVA, no? Per cui di che si lamenta?).
Una volta un laboratorio (non ne rivelo il nome e nemmeno la città) mi presentò una fattura spaventosamente salata, dalla quale risultava che il sensore era stato spolverato con un pennello “di pelo di martora”.
Alla mia richiesta di spiegazioni, mi dissero che era quello a determinare il costo dell’operazione.
Mi qualificai, dimostrando che non ero uno sprovveduto e che – a parte la compassione che provavo per la povera martora – sapevo benissimo che cosa significasse pulire un sensore, aggiungendo che un pennello di suino nostrano avrebbe svolto altrettanto degnamente la stessa funzione.
Ottenni lo sconto, ma non mi rivolsi mai più a quei buffoni.
Alla luce di questa e di altre simili esperienze, ho deciso che per evitare grane, discussioni o esborsi di capitali (o tutte queste cose insieme), il sensore me lo pulisco da me.
Ovviamente non è una cosa che si fa tutti i giorni: bisognerebbe farla quando si incominciano a notare le prime macchie.
In realtà io sono pigro, così mi decido a pulire il sensore solo quando la foto appare più pelosa di un pastore bergamasco (parlo del cane, non degli allevatori in quel di Bergamo) e devo passare venti minuti a spiluccarla in Camera Raw.
In teoria è facile: basta sganciare il dorso dalla macchina e il sensore eccolo lì, nudo e disponibile come l’imperatrice Messalina quando decideva di cornificare quel noioso di suo marito concedendosi a nerboruti popolani (il che avveniva spesso, a quanto racconta il poeta Giovenale).
Voi dite: ma sei matto? Toccare un sensore può rovinarlo irreparabilmente!
Ma no, tranquilli: quello che in realtà tocchiamo (e puliamo) è il primo strato del vetro protettivo del filtro anti-aliasing anteposto ad altri strati, a loro volta anteposti a spazi vuoti, che stanno sopra una pellicola sottilissima che a sua volta protegge il sensore (ma senza toccarlo direttamente).
Se il filtro anti-aliasing non c’è, esiste comunque una serie di strati protettivi che impediscono a qualsiasi cosa che non sia un fotone di raggiungere i microscopici e preziosi fotodiodi.
L’unico rischio è quello di rigare il vetro, ma non credo che a qualcuno venga in mente di effettuare la pulizia usando spazzole d’acciaio o pagliette per i piatti, giusto?
Anche perché – mi dicono gli esperti – lo strato protettivo è fatto di niobato di litio: un sale che nella scala di Mohs (scala della durezza dei materiali) occupa il numero cinque. Se pensiamo che la durezza dell’acciaio va da 4 a 4.5, ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfirlo.
E poi, io adopero solo ed esclusivamente il kit di pulizia fornito dalla casa produttrice, che costa quanto una bottiglia di Ardbeg con venticinque anni di invecchiamento, ma almeno è sicuro che non fa male (l’Ardbeg invece sì, ma è difficile rinunciarvi).

Per cui, eccoci qui: il flacone del liquido A, quello del liquido B, le cartine, le due palette (rigorosamente una bianca e una nera, per non confonderle).
La procedura è degna di un alchimista del Rinascimento alle prese con la pietra filosofale, ma qui, invece che trarre l’oro dal piombo, si tratta di eliminare le macchie da un pezzo di vetro.
Dunque, si fa così: dopo avere spolverato il sensore (o meglio il vetro protettivo) con una pompetta e/o un pennellino, si estrae un quadratino dell’apposito tessuto e lo si bagna con il liquido A. Poi lo si mette a cavallo di una delle due palette di plastica e lo si passa sul vetro, una sola volta e in un solo senso. Infine – prima che il liquido A evapori completamente, quindi con la velocità di Clark Kent quando si trasforma in Superman nella cabina telefonica – bisogna estrarre una seconda pezza di tessuto speciale, bagnarla con il liquido B, avvolgerla intorno all’altra paletta di plastica (guai a usare la stessa di prima!) e ripassarla sul vetro, nello stesso senso e sempre una sola volta.
Dopo che tutti i residui di liquido sono evaporati, si riattacca il dorso alla macchina e si prova a fotografare una superficie uniforme: un muro bianco, il cielo azzurro, una coltre uniforme di nuvole o un banale foglio di carta.
A questo punto si estrae la scheda di memoria, la si infila nell’apposito lettore, si controlla come è venuta la foto, e…

AAARGH! Il risultato è peggiore di prima! La polvere e i peli sono spariti, ma adesso ci sono chiazze di varia foggia e dimensione, segno evidente che il liquido (quale? Boh, uno dei due) non è evaporato completamente, lasciando tutto macchiato.
Insomma, un po’ come il calcare sulle mattonelle della doccia, ma per mandare via queste non si può usare il Viakal…

Così si sgancia di nuovo il dorso dal corpo macchina – col rischio di lasciar cadere a terra un capitale – e si ricomincia daccapo.
Due volte, più spesso tre.
Alla fine, dopo avere nuovamente fotografato il muro bianco della cucina insospettendo i familiari riguardo alla propria sanità mentale, ci si accontenta di un risultato quasi buono, preparandosi a smacchiare le foto in postproduzione, una per una, fino a quando si avrà di nuovo la voglia (e il tempo) di affrontare una nuova, deludente pulizia.

Alla prossima.