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Novembre 2016
Caravaggio “fotografo”
La camera obscura fu teorizzata dal filosofo greco Aristotele già nel quarto secolo avanti Cristo: se sulla parete di una camera completamente nera pratichiamo un minuscolo foro (il foro stenopeico, dal greco stenòs opaios, “che ha una stretta apertura”), esso catturerà i raggi di luce provenienti dall’esterno e li focalizzerà sulla parete opposta, generando una figura capovolta e con i lati invertiti.
La camera obscura venne descritta nuovamente intorno all’anno Mille dallo scienziato arabo Alhazen, (Abu Ali al-Ḥasan ibn al-Ḥasan ibn al-Haytham), iniziatore dell’ottica moderna, e il suo principio di funzionamento fu illustrato da Leonardo da Vinci nel Codice atlantico (1515).
Ventinove anni più tardi, il matematico olandese Gemma Frisius (Jemme Reinerszoon Frisius, 1508-1555) usò la camera obscura per osservare – proiettata sul fondo della camera – l’eclisse di sole del 24 gennaio 1544 (figura 1).
Nella camera a foro stenopeico, le immagini risultavano a fuoco indipendentemente dalla distanza dal soggetto e dalla distanza di proiezione; per contro, il ridotto diametro del foro (necessario a focalizzare con precisione i raggi luminosi) diminuiva drasticamente la luminosità, al punto di non permettere al disegnatore di cogliere i particolari più fini dell’immagine. Se si allargava il foro, la luminosità aumentava, ma l’accavallarsi dei raggi luminosi causava una pesante perdita di definizione.
Per questo, nel 1550, il matematico (e medico, astrologo, filosofo) Gerolamo Cardano allargò il foro stenopeico inserendovi una lente convergente e migliorando in modo drastico la luminosità dell’immagine proiettata (ma obbligando a posizionare il piano focale a una distanza coincidente con il piano di messa a fuoco, strettamente dipendente dalla lunghezza focale della lente).
La camera obscura (o camera ottica) fu usata dai pittori nel corso di molti secoli. La sua utilità era evidente: il pittore si introduceva all’interno della camera e tratteggiava a carboncino l’immagine focalizzata dalla lente e proiettata (capovolta e con i lati invertiti) sulla parete opposta. Tornato in studio, raddrizzava l’immagine (in genere grazie a uno specchio) e la utilizzava come disegno preparatorio per le sue composizioni.
Finché si lavorava al coperto, era possibile usare camere ottiche anche molto grandi, ma portare con sé e montare sul campo una camera in cui poter entrare era scomodo e macchinoso, per cui, nel 1685, il tedesco Johann Zahn inventò una camera obscura portatile: uno specchio angolato a 45 gradi proiettava l’immagine su un vetro smerigliato incastonato nella faccia superiore della scatola. Sul vetro, il pittore appoggiava una carta traslucida sulla quale tratteggiava a carboncino i contorni del paesaggio, che usava poi in studio come base della sua composizione (figura 2).
Sicuramente ne fece un uso intelligente e creativo il Canaletto (Giovanni Antonio Canal, 1697-1768), figlio di uno scenografo teatrale e scenografo egli stesso, esperto nell’utilizzo rigoroso della prospettiva geometrica calcolata matematicamente: le sue vedute sono spesso basate su una visione grandangolare e sulla sovrapposizione di differenti punti di vista ottenuta grazie alla rotazione dei piani prospettici (figura 3).
Jan (o Johannes) Vermeer (1632-1675) usò la camera ottica per incorniciare la scena e ottimizzare la composizione sul piano bidimensionale. Inoltre la scarsa luminosità del vetro smerigliato gli permetteva di cogliere con maggiore precisione i valori di luminanza delle singole aree (figura 4). L’uso della camera ottica permetteva al pittore fiammingo di visualizzare la prospettiva in modo rigoroso, traducendo i rapporti spaziali su un supporto bidimensionale. Secondo gli studiosi, il fatto che Vermeer non eseguisse disegni preparatori (così come altri suoi contemporanei, e prima di lui il Caravaggio) indicherebbe proprio un suo uso abituale della camera ottica. Si noti inoltre, nel dipinto riprodotto in figura (“Il bicchiere di vino”), l’uso della luce, decisamente “fotografico”: la luce principale proviene dalla finestra a sinistra, ma le ombre sono addolcite da una luce secondaria proveniente da destra (probabilmente un muro di colore chiaro). Inoltre, molti dipinti di Vermeer presentano un curioso (e molto fotografico) effetto di sfocatura dei piani diversi dal piano principale, proprio come si verificherebbe osservando la scena attraverso l’obiettivo di una camera ottica (e, oggi, di una macchina fotografica).
Una scatola con pareti scorrevoli per consentire la messa a fuoco, uno specchio, un vetro smerigliato e una lente (divenuta nel frattempo un sistema di lenti, cioè un obiettivo): la camera obscura era pronta per diventare macchina fotografica, bastava sostituire al vetro smerigliato una lastra cosparsa di materiale sensibile alla luce. E così fece, nel 1827, Joseph Nicéphore Niépce, considerato convenzionalmente l’inventore della fotografia, anche se lui ancora non lo sapeva (figura 5). Egli ottenne la sua prima “héliographie” impressionando una lastra metallica sensibilizzata con bitume di Giudea e olio di lavanda. Questa è convenzionalmente considerata la prima vera “fotografia” della storia.
È praticamente certo che Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (1571-1610), usasse la camera obscura per comporre le sue opere pittoriche.
Ma c’è di più.
I chiaroscuri del Caravaggio sono troppo “fotografici” per essere il semplice frutto di un’immagine proiettata su una parete; le sue intuizioni sulla luce e sui suoi effetti anticipano di fatto (di due secoli!) quelle che saranno le scoperte dei fotografi nell’Ottocento.
La dottoressa Roberta Lapucci, docente presso lo Studio Art Centers International di Firenze (SACI), ipotizza che il Caravaggio sistemasse i suoi modelli all’interno di una stanza trasformata in camera obscura, illuminandoli grazie a un foro nel soffitto da cui filtrava la luce. Poi ne proiettava l’immagine sulla tela attraverso una lente convergente e uno specchio. Il particolare dello specchio è interessante: in molti dipinti del Caravaggio, soprattutto agli inizi, i modelli hanno una postura e un atteggiamento “mancini”, esattamente come sarebbe di persone destre riflesse da uno specchio.
Inoltre, sembra che il Caravaggio usasse delle sostanze chimiche che – cosparse sulla tela – permettevano di fissarvi le immagini per il tempo necessario a tratteggiarne i contorni.
L’analisi della fluorescenza ai raggi X ha permesso di rinvenire, sulle tele del pittore, tracce di sali di mercurio e d’argento, notoriamente sensibili alla luce. Questo, unito al fatto che egli non eseguisse schizzi preliminari, può far pensare che dipingesse direttamente sulle proiezioni ottenute con metodi chimici. Le analisi stratigrafiche hanno evidenziato strati molto sottili di nitrati dispersi in colla di origine animale (esattamente come le moderne emulsioni alla gelatina), mentre alcuni esperimenti effettuati in laboratorio hanno dimostrato l’efficacia del procedimento. Insomma, non siamo sicuri al cento per cento che Caravaggio avesse usato questo sistema, ma il fatto è che funziona!
Ma il Caravaggio ci appare un innovatore e un precursore anche sotto altri aspetti.
Prima di tutto, il suo realismo precorre di almeno due secoli quello che sarà tipico del mezzo fotografico. Come è noto, i suoi modelli erano scelti tra la gente del popolo: anche per i soggetti sacri egli si rivolgeva a popolani, gente della strada, mendicanti e prostitute, una scelta non solo rivoluzionaria, ma anche trasgressiva per l’epoca.
Inoltre, il suo uso della luce precorre quello che sarà uno stilema classico della fotografia: la luce non solo dà forma e volume ai soggetti, ma è essa stessa portatrice di significato: la sua direzione e la sua intensità “vogliono dire” qualcosa e diventano parte integrante del messaggio.
Così il suo messaggio rivoluzionario attirò a Roma e in Italia decine di pittori, ansiosi di apprendere non tanto una tecnica, quanto un nuovo modo di pensare e di concepire le forme, la composizione e – soprattutto – la luce.
Caravaggio fu poi dimenticato e relegato nella categoria dei “minori” fino alla seconda metà del Novecento.
Oggi la sua opera evidenzia non soltanto una genialità capace di precorrere i tempi, ma anche un paradigma stilistico che tutti i fotografi dovrebbero studiare e far proprio.
Proviamo a guardare e commentare alcune sue opere.
Il “Fanciullo con la canestra di frutta” (figura 6) appartiene forse al primo periodo romano di Caravaggio. Papa Paolo V, venutone in possesso, lo regalò a suo nipote, il cardinale Scipione Caffarelli-Borghese, che amava collezionare dipinti. In questo modo il quadro divenne patrimonio della Galleria Borghese, dove si trova tuttora. Al di là del simbolismo della composizione, variamente interpretata dai critici (perché il ragazzo ha le spalle nude? Che significato ha la foglia avvizzita sulla destra? L’espressione del volto – oltre alla presenza della frutta – contiene allusioni sessuali?) noi ci soffermiamo sulla gestione tipicamente fotografica della luce. Il soggetto è illuminato da una forte luce proveniente da sinistra, molto angolata. Una luce secondaria proveniente da destra rischiara il lato destro (rispetto a chi guarda) del volto, mentre il cesto della frutta sembra rischiarato separatamente da uno spot direzionato frontalmente e dall’alto. Una quarta fonte di illuminazione rischiara lo sfondo, contro il quale si proietta un’ombra che non coincide con il profilo del soggetto: per questo c’è chi ipotizza che l’ombra sullo sfondo sia quella del pittore e della sua tela.
Il dipinto “Giuditta che taglia la testa a Oloferne” (figura 7) è conservato presso la Galleria nazionale di arte antica a Roma. La modella che interpreta Giuditta è una prostituta di cui conosciamo anche il nome: tale Fillide Melandroni, amica del pittore. La luce, fortemente angolata, proviene da un punto posto a sinistra in alto, alle spalle di Oloferne. Il contrasto è forte e le ombre appaiono chiuse, come se non ci fossero elementi riflettenti capaci di schiarirle. L’unico elemento luminoso è il vestito bianco di Giuditta, vedova virtuosa e coraggiosa (interpretata da una prostituta!), che uccide l’odiato nemico del suo popolo con la fronte aggrottata e le braccia distese: un atteggiamento distaccato, solenne, quasi di ribrezzo per il gesto – raccapricciante, ma anche necessario e ineluttabile – che sta compiendo. La luce che sembra irradiare da Giuditta (e che in realtà è riflessa dalla sua veste candida) contrasta con l’oscurità in cui è immersa la figura di Oloferne, che emerge dal buio soltanto per mostrare il volto contratto dall’agonia e lo spasmo dei muscoli. Sembra che in una prima versione Giuditta avesse il seno scoperto e che il pittore avesse poi corretto quella che gli sembrava un’allusione sessuale troppo esplicita e inadatta a una figura virtuosa ed eroica come quella di Giuditta. In realtà, anche nella versione definitiva il seno della protagonista (anche se coperto dal tessuto) ci appare come il vero centro (soprattutto luminoso) dell’intera composizione, sottolineando la femminilità e la sensualità dell’eroina.
La “Morte della Vergine” (figura 8) fu commissionata al pittore dall’ordine dei Carmelitani scalzi, che però lo rifiutarono perché l’immagine della Madonna non rispettava i canoni dell’iconografia tradizionale: anziana, corpulenta, con il ventre rigonfio, il volto cadaverico, un braccio abbandonato, ma soprattutto la nudità del piede ritratto fino alla caviglia (immagine sconveniente per l’epoca). Si disse (ma non ci sono prove a sostegno di questa tesi) che il pittore si fosse ispirato al cadavere di una prostituta trovata morta nel Tevere. In ogni caso, questa non è certo la Madonna che si vede nelle chiese. Il primo piano non è occupato dal soggetto principale, ma da Maria Maddalena che piange sconsolata, ripiegata su se stessa. La sedia sulla quale la Maddalena è seduta è una sedia povera, così come umile e dimesso appare tutto l’ambiente. Questa scelta sembra dettata dalla vicinanza del Caravaggio agli ordini religiosi “pauperistici” e allo stile di vita del cardinale Borromeo, che predicava la povertà della Chiesa. L’unica nota di vivacità è rappresentata dal vestito rosso della Madonna, che riprende il colore della tenda drappeggiata in alto. Le teste degli apostoli, il viso di Maria e la sua mano abbandonata giacciono lungo una linea obliqua che scende da sinistra in alto a destra in basso, e che guida l’attenzione dello spettatore proprio su quella mano. L’unica fonte di luce è un punto in alto a sinistra, con effetto di deciso controluce: un fascio che sfiora le teste calve di alcuni apostoli per poi posarsi con decisione sul soggetto principale e sulle spalle chine della Maddalena. Il quadro, rifiutato dai Carmelitani, fu acquistato dal duca di Mantova. In seguito, dopo il dissesto finanziario della famiglia Gonzaga, entrò in possesso di Carlo I d’Inghilterra. Alla morte del re, il quadro fu acquistato da un banchiere parigino e da questi ceduto a Luigi XIV, il “Re Sole”, che lo collocò presso il palazzo (poi museo) del Louvre, dove è tuttora esposto.
Come già scrivemmo nell’ottobre del 2013, “La vocazione di san Matteo” (figura 9) sembra essere l’opera più rappresentativa della capacità del Caravaggio di dominare e gestire la luce, rendendola protagonista della composizione e principale portatrice di significato.
Gesù, seminascosto dietro la figura massiccia di san Pietro, indica Matteo. Il personaggio di spalle in primo piano si sporge verso Pietro, come per chiedergli “Ce l’ha con me?”. Ma Pietro indica discretamente Matteo, come a voler rispondere “No, con lui”. È a questo punto che Matteo, con espressione incredula, indica se stesso: “Ma chi, proprio io!?”. Nella scena è presente una finestra, ma non è questa ad illuminare i personaggi: la luce (un fascio tagliente, crudo, fortemente direzionato) giunge da un altrove esterno alla composizione ed è talmente intensa da annullare la stessa luce del giorno, quella che dovrebbe giungere dalla finestra, la quale in tal modo appare opaca e spenta. Il fascio di luce, simile a quello proiettato da un faro, si genera in un punto esterno alla composizione, situato alle spalle di Gesù, il quale a sua volta sembra dirigerlo e dominarlo con il movimento della mano. È la luce di un Dio che agisce prima del Figlio e attraverso di lui, sostenendone e legittimandone l’azione. È la luce diretta, inequivocabile, ineludibile della chiamata alla grazia, che non viene direttamente da Gesù ma che attraverso di lui agisce.
Ancora una volta, lo studio e l’analisi delle grandi opere del passato rappresenta, per il fotografo, un passaggio irrinunciabile per comprendere e sfruttare al meglio la luce, i toni, i colori: sono questi i nostri unici e veri “pennelli”.
Alla prossima.