Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

GIUGNO 2020

Fabbriche di (inutili) parole

Avere un account Google e navigare spesso per lavoro, come faccio io, produce un effetto collaterale piuttosto fastidioso: una continua e irritante sollecitazione pubblicitaria.
Tra le tante pubblicità che compaiono sul mio monitor ogni volta che accedo a Internet, ce n’è una che – da anni – mi invita a tenermi alla larga da cinque cibi che, a quanto pare, sarebbero dannosissimi per la mia salute.
Ho sempre accuratamente evitato di cliccare su quel link; ma oggi, che avevo un po’ di tempo da perdere, ho ceduto alla curiosità e ho voluto verificare.
Mi sono trovato di fronte a una presentazione lunghissima, senza un’immagine (semplicemente, sullo schermo apparivano scritte le parole che il dicitore stava pronunciando), piena di ripetizioni, di esortazioni, di banali consigli salutistici, di inutili descrizioni pseudobiologiche, senza che mai si arrivasse al punto.
Dopo un’ora di inutili chiacchiere, ho deciso di interrompere il collegamento, senza peraltro essere riuscito a capire quali siano questi famigerati cinque cibi che, a detta del biologo (ammesso che lo fosse) che parlava, presentandosi come un luminare nel suo settore, danneggerebbero così gravemente la mia salute.
Il tutto, ovviamente, per pubblicizzare un prodotto presentato come miracoloso, che dovrebbe disintossicare il mio fegato e il mio intero organismo.
Io mi chiedo come si possa pretendere che un potenziale cliente abbia il tempo di rimanere quasi un’ora, e forse più (io non lo so perché non ho terminato la presentazione), ad ascoltare spiegazioni pseudoscientifiche, farraginose, pesanti e con continue ripetizioni.
Chi ha ideato una stupidaggine del genere non ha fatto alcuna ricerca di nessun tipo, non capisce nulla di strategie di marketing, sembra anacronisticamente fermo alle pubblicità che nei primi anni del Novecento si pubblicavano sui giornali e nelle quali si spendeva mezza pagina stampata per decantare le presunte virtù medicamentose di un amaro o di un prodotto galenico.
In un’epoca in cui abbiamo tutti fretta, questi imbonitori da baraccone non hanno la minima conoscenza di strategie della comunicazione, se pretendono che uno rimanga per ore incollato allo schermo ad ascoltare le loro sbrodolature.
Rincoglionire di parole il potenziale e malcapitato cliente è la strategia di coloro che suonano alla porta di casa per vendere inutili enciclopedie, che truffaldinamente estorcono denaro agli anziani, che vendono abbonamenti-burla in favore di ambigue società di servizi.
Dovrebbe esserci una legge che impone di spiegare le proprie ragioni in meno di 200 parole: se ne usi di più, non sei affidabile e probabilmente vuoi truffarmi.
Lo so, sono vecchio e brontolone, e anche nella vita reale detesto l’incapacità di alcune persone di spiegarsi con poche, chiare e concise parole.
Compresi quelli che parlano di argomenti scientifici o, per restare nel nostro ambito, di fotografia.
Se sei davvero esperto, se conosci davvero bene un argomento, allora sei in grado di spiegarlo con poche parole, con chiarezza e con semplicità.
Se incominci a girare intorno agli argomenti, a ripeterti, a usare periodi lunghi pieni di incisi e di subordinate, allora non sei quell’esperto che dici di essere; oppure, per qualche ragione che non conosco, stai cercando di intortarmi.
Sotto mentite spoglie, mi sono iscritto a un corso di fotografia che prometteva di trasformarmi in professionista in soli due incontri.
Alla fine del corso ero esausto: due giorni interi di discorsi privi di contenuti, le solite nozioni fritte e rifritte, l’obiettivo, la macchina, l’incrocio dei terzi, le regole obbligatorie grazie alle quali da ciofeca assoluta ti trasformerai in un vero, grande artista.
Purtroppo la gente ci casca, perché il corso costa poco, è offerto con uno sconto da paura, che se vai a mangiare un calzone ripieno ti costa di più, e oggi molte persone valutano un servizio non tanto in base alla sua qualità o all’affidabilità di chi lo propone, quanto in base al suo costo.
Mentre basterebbe una breve, semplice indagine in rete per capire chi è il tizio che pretende di farti da maestro.
Pochi lo fanno.
E, ovviamente, ognuno riceve quello che ha pagato.

Alla prossima.