Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

LUGLIO - AGOSTO 2020

Quando la fotografia aiuta a capire (ovvero: come leggere le foto di un catalogo commerciale)

Negli anni Ottanta eravamo tutti ottimisti e fiduciosi.
Forse non proprio felici, ma sicuramente ottimisti.
Il Presidente della Repubblica era quel simpaticone di Sandro Pertini, al governo c’era Bettino Craxi con la sua ventata di novità (questa almeno era la percezione generale), i BOT rendevano il venti per cento (anche se l’inflazione alle stelle ci rosicchiava di fatto tutto il rendimento, ma nessuno se ne accorgeva), alla televisione c’era Drive In e tutti eravamo convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Persino il papa era simpatico e alla mano: un vero sportivo quel Giovanni Paolo, amico dei giovani e molto telegenico (peccato per le sue idee un po’ tanto conservatrici, ma la dottrina è una roba difficile e alla gente non interessa e neanche la capisce: l’importante è quello che appare).

Ma la vera, dirompente novità era la diffusione delle televisioni private, dapprima piccole e quasi caserecce, poi più strutturate e finalmente diffuse a livello nazionale.
Gli inizi erano stati avventurosi: le emittenti più piccole trasmettevano film western degli anni Quaranta, organizzavano feste di quartiere con orchestrina folk e salsicce alla griglia, oltre che grotteschi spogliarelli improvvisati da casalinghe cellulitiche ansiose di comparire in “tivì”.
Ma soprattutto trasmettevano pubblicità.
I piccoli imprenditori locali avevano intuito subito le potenzialità del mezzo, e sui canali a diffusione regionale impazzavano gli annunci di produttori di serbatoi in vetroresina, saloni di bellezza, pizzerie e supermercati rionali.
Spot pubblicitari spesso fatti in casa, con fidanzate, figlie e nipoti a far da modelle, qualche volta anche carine ma di sicuro non professioniste, con risultati talvolta decisamente comici.

Poi vennero i mobilifici.
Come abbiamo detto, gli anni Ottanta erano pervasi di ottimismo, e l’ottimismo è l’afrodisiaco più potente che si conosca, per cui ci si sposava alla grande, ci si sposava tutti.
E quando ci si sposa si cerca casa, e quando la si è trovata la si deve anche arredare.
Fino a quel momento, i mobilieri avevano cercato di arrotondare comperando appartamenti e arredandoli con mobili da quattro soldi per poterli affittare ammobiliati e lucrare così doppiamente (sull’affitto – maggiorato – e sul costo dei mobili, che in pratica rivendevano a ogni nuovo inquilino).
Ma non tardarono ad afferrare al volo la ghiotta possibilità rappresentata dalle televisioni locali, uno strumento pubblicitario potentissimo del quale – talvolta – divennero i diretti proprietari.
La travolgente ascesa di Aiazzone e della sua “filosofia” (che alla fine decretò anche la rovina della società) non è che l’esempio più eclatante.

I tempi cambiarono in fretta: la classe politica che aveva governato in quegli anni fu travolta dalle inchieste giudiziarie, gli italiani scoprirono che tutto il benessere che credevano di avere era in realtà un’illusione, mentre a livello internazionale il crollo del muro di Berlino e la fine del socialismo reale sconvolsero per sempre assetti territoriali e fedi politiche.

Anche la grande stagione dei mobilifici volse al termine.
I prodotti di qualità media scomparvero dal mercato, travolti dall’imbattibile concorrenza di un nuovo gigante proveniente dalla Svezia.
Sopravvissero da un lato l’artigianato di eccellenza (anche quando praticato e sostenuto da grandi gruppi imprenditoriali), dall’altro i produttori in grande serie che potevano contare su un volume elevato di vendite, praticando quindi prezzi contenuti.
La possibilità di vendere online (che negli anni Ottanta non esisteva) ha ulteriormente ampliato il mercato, e tutti ci si sono buttati con comprensibile entusiasmo.

Che cosa c’entra la fotografia con tutto questo?
C’entra, perché l’idea di questo articolo mi è venuta proprio sfogliando dei cataloghi di mobilifici e analizzando attentamente le fotografie pubblicate.
Le differenze sono enormi, e se è vero che il modo di presentare il proprio prodotto è sintomo della serietà e del livello qualitativo di un’azienda, allora le fotografie dei cataloghi sono uno strumento di indagine di fondamentale importanza.

Ho preso ad esempio due diverse aziende, che non nomino perché non si dica che voglio fare pubblicità (positiva o negativa che sia).
Per lo stesso motivo non posso corredare questo articolo con immagini (per le quali non possiedo la licenza di riproduzione), ma spero che la mia descrizione sia sufficientemente esauriente ed evocativa.

Il catalogo della prima azienda (che chiameremo Risparmio-Cosmico) è facilmente reperibile in tutto il territorio nazionale.
Hanno anche un sito Internet, dove si ritrovano le stesse immagini pubblicate sul cartaceo.
A quanto risulta, le loro vendite online rappresentano una parte rilevante del fatturato, salvo poi ricevere una marea di giudizi negativi sulla durata dei prodotti e sull’incompetenza degli addetti alla consegna e al montaggio dei mobili.
Questi ultimi sono di tipo funzional-piccoloborghese-moderno, tutti inscrivibili in un parallelepipedo e privi di una benché minima idea di design o di innovazione.
Sembrerebbero più adatti alle camere di una grande catena alberghiera (ma economica) piuttosto che a una casa dove vivere con la famiglia.
Esiste anche una serie in stile retrò-campagnolo, che una volta avremmo chiamato “rustico” ma che adesso fa più chic definire “etnico”.
Purtroppo anche in questo caso la fabbricazione in serie e la povertà dei materiali usati si percepisce già soltanto osservando una fotografia formato francobollo.
Il motivo è evidente: pur essendo diffusi a livello nazionale, questi produttori sono più piccoli e meno organizzati di Ikea, per cui non possono permettersi di investire in ricerca e innovazione (o forse non vogliono farlo), per non parlare di design, e così sono costretti ad attestarsi su una produzione quanto più possibile uniforme, modulare ed esteticamente dozzinale, se vogliono restare concorrenziali.
I vari ambienti (camere da letto, salotti, cucine) sembrano fotografati direttamente nei loro showroom, senza nessuna ambientazione, con un’illuminazione piatta e uniforme che sembra generata direttamente dai tubi fluorescenti appesi al soffitto.
A volte i mobili sono fotografati dall’alto in basso, con uno sgradevole effetto di verticali convergenti.
Se l’azienda si serve di fotografi professionisti, beh, allora proprio non si vede!
Poi ci sono le “modelle”.
È noto: se su un letto o su un divano ci metti una tipa poco vestita vendi più facile, basta che sia sufficientemente giovane e gnocca.
E allora ecco che in tutto il catalogo si alternano tre o quattro figliole (non di più), tutte molto simili (alte, capello lungo e liscio tipo Barbie, come il 99 per cento delle ragazze di oggi, ma ovviamente bruno perché siamo un paese mediterraneo, così rivisitiamo la Barbie in versione orecchiette e soppressata).
L’abbigliamento è molto semplice: sottoveste grigio-perla finta-seta al novanta per cento (credo che si scambino tutte lo stesso capo di abbigliamento), oppure tubino rosa e sandaletti tacco quattordici per stare appoggiate al piano cottura della cucina (ma chi sta in cucina vestita a quel modo!?).
Meglio sui divani, dove la potenziale giovane ospite è mollemente accomodata con indosso un paio di jeans e una democratica T-shirt bianca (ma con i piedi rigorosamente nudi, vuoi mica che cammini con le scarpe sul tappeto).
Sul fatto che si tratti di modelle professioniste ho feroci dubbi: a parte le posture tutte un po’ rigide e i sorrisi tirati coi gancetti, ce ne sono un paio che mi sembrano un po’ troppo rotondette per provenire da un’agenzia di modelle.
Forse anche in questo caso figlie e nipoti hanno avuto l’occasione di posare per un loro irripetibile momento di notorietà…
Conclusione: per quanto mi riguarda non acquisterei mai il prodotto di un’azienda che me lo presenta in questo modo.
Attenzione: non parlo di qualità o robustezza dei mobili, parametri sui quali non posso dire nulla perché non li conosco, non avendone mai acquistati (ma non li acquisterei comunque, dopo avere letto le recensioni dei clienti).
Dico soltanto che – se è vero che la pubblicità è l’anima del commercio – questo modo di presentare i prodotti è già di per sé sufficiente a tenermene lontano.

Di questo dovrebbero essere consapevoli quegli imprenditori che – per “risparmiare” – affidano la realizzazione dei loro cataloghi al solito dipendente con l’hobby della fotografia, o – forse peggio – al fotografo che sta all’angolo e che ogni tanto fa qualche matrimonio: se il fotografo non è un professionista specializzato in quel genere di fotografia, che conosce il mestiere, sa che cosa sta fotografando, sa interfacciarsi con il committente e capisce quello che i clienti vogliono, il catalogo sarà inefficace, perché presenterà il prodotto in modo banale e insignificante, spingendo il potenziale cliente a rivolgersi altrove.

Il secondo catalogo, distribuito in forma cartacea soltanto ai clienti o a chi ne ha fatto esplicita richiesta, è di un’azienda che chiameremo Strada-del-Nord.
Erede di una più che cinquantennale tradizione, l’azienda è tutt’altro che piccola, ma si distingue per la cura artigianale delle sue produzioni, per l’attenzione al design, per la qualità dei materiali utilizzati e per l’accuratezza delle lavorazioni.
Inutile dire che i costi sono decisamente adeguati al prodotto, ma un mobile dura decenni (o almeno dovrebbe), e allora tanto vale spendere un po’ di più (anche a rate) ma mettersi in casa qualcosa di bello.
Non è difficile, lo ha capito benissimo Ikea con il suo design “democratico”, che sarà anche democratico ma pur sempre di design si tratta, mentre non lo hanno capito quelli di Risparmio-Cosmico, con i loro banalissimi parallelepipedi a specchi e ante e i loro letti imbottiti come le celle dei matti.
Nel catalogo Strada-del-Nord, i mobili sono ambientati in spazi fortemente connotati e spesso in contrasto con il prodotto: creazioni moderne nei saloni di un palazzo settecentesco, o al contrario librerie di stile classico inserite in loft postindustriali.
Il tutto con ampia vista su finestre, lucernari e grandi superfici vetrate, che danno respiro all’insieme e suggeriscono (che è il vero scopo della pubblicità) uno stile di vita piuttosto che un semplice prodotto industriale.
Inutile dire che la presenza di fonti di luce naturale e di zone d’ombra nei punti opposti del locale pone al fotografo seri problemi di illuminazione.
Ma poiché nelle immagini stampate questi problemi appaiono brillantemente risolti, è evidente che l’azienda si rivolge a un’agenzia pubblicitaria di prim’ordine, che ne cura l’immagine e si avvale di fotografi professionisti, specializzati nella fotografia di architettura e di interni.
Ovviamente non c’è bisogno di far girare per i locali gnoccarelle poco vestite: il potenziale cliente sa apprezzare l’oggetto anche senza che ad esso venga affiancato un richiamo sessuale, che anzi gli apparirebbe come un’intollerabile caduta di stile.

Certo, i costi che questa seconda azienda deve sostenere sono imparagonabili rispetto a quelli sostenuti dalla prima, ma chissà perché loro sono in piena espansione, nonostante i prezzi non proprio popolari, mentre i primi non se la passano molto bene (neppure dal punto di vista giudiziario, a quanto risulta da notizie più o meno recenti).
Due mondi diversi che si rivolgono a clientele dai gusti opposti.
E tutto questo si capisce con adamantina chiarezza anche soltanto sfogliando le pagine di un catalogo e sapendo leggere una fotografia.

La prossima volta che ho bisogno di un tavolo so dove andare.
Gli imprenditori “parsimoniosi” ci pensino sopra.

Alla prossima.