Michele Vacchiano Cultural Photography

Il "tip" del mese

Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere piů divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo.

MAGGIO 2015

Prove o test?

Ok, il vocabolario di inglese ci dice – giustamente – che la parola inglese “test” è la traduzione della parola italiana “prova” (e viceversa, ovviamente).

Questo porta però ad una confusione (concettuale, se non terminologica) che spesso si rivela ingannevole e fonte di fraintendimenti.

Quando qualcuno – me compreso – pubblica (sui siti specializzati, sui blog o sulle riviste) i risultati delle sue esperienze con una determinata attrezzatura, quello che scrive e afferma è il risultato di una serie di prove (io le chiamo “prove sul campo” o “prove su strada”).

La prova è il risultato di esperienze individuali, fatte in condizioni del tutto casuali, con soggetti scelti in base a discriminazioni personali.

Insomma, se io scrivo che con l’obiettivo Super-Tubar ho ottenuto risultati strabilianti è soltanto perché quello che ho visto mi è piaciuto, soddisfa le mie necessità, risponde – più o meno bene – alle mie esigenze, professionali o amatoriali che siano.

Io mi occupo prevalentemente di fotografia del territorio, paesaggio e architettura.
Le caratteristiche che io cerco – ad esempio in un obiettivo – sono un’eccellente risoluzione, l’assenza di distorsione ai bordi, una perfetta tenuta nel controluce.
E’ ovvio che chi si occupa di matrimonio o street photography sarà meno interessato a questi aspetti e più interessato ad altri (ad esempio l’ampia apertura relativa, che gli consente di lavorare con diaframmi aperti e quindi tempi rapidi).
Di conseguenza le mie prove gli risulterebbero del tutto inutili.

Il test è un’altra cosa.

Testare un’apparecchiatura ottica, meccanica o elettronica significa sottoporla a prove standardizzate, realizzate secondo parametri rigorosi e scientificamente controllati, atti a garantire l’assoluta uniformità dei risultati e la massima attendibilità dei confronti.
Le conoscenze, le competenze e le attrezzature necessarie a svolgere un vero test (pensiamo alla realizzazione dei grafici MTF, tanto per fare un esempio) sono appannaggio esclusivo di laboratori specializzati e sono totalmente fuori portata per il fotografo (anche professionista).

Perché dico questo?
Semplicemente perché ritengo che non basti leggere avidamente i blog e i siti (anche se autorevoli) di chi ha provato una determinata attrezzatura, ma sia necessario informarsi sulle reali prestazioni e caratteristiche di ciò che si vuole acquistare, e questo si fa solamente consultando i test realizzati dai laboratori e leggendo con attenzione i “data sheet” pubblicati dai costruttori, per chiedersi poi (questo è un passaggio irrinunciabile) se e quanto le caratteristiche illustrate rispondano alle proprie esigenze.

Quando voglio acquistare un obiettivo macro, non mi basta leggere gli articoli di chi l’ha provato e ne è rimasto entusiasta, ma voglio sapere a quali diaframmi quell’obiettivo lavora meglio, e per questo devo consultare per forza i test MTF.
Se mi occupo di fotografia di documenti, dovrò rivolgermi a un obiettivo macro capace di lavorare bene ai diaframmi intermedi, e non mi interessa se ai diaframmi più chiusi la qualità scende a causa della diffrazione; ma se faccio fotografia di insetti (e quindi ho bisogno della massima profondità focale), cercherò un obiettivo la cui resa sia massima proprio ai diaframmi più stretti.
La prima fotografia che correda questo articolo, raffigurante un maschio di Strangalia maculata (un coleottero della famiglia dei Cerambicidi frequente nei pascoli di montagna), è stata scattata con un obiettivo Phase One 120mm macro su un dorso digitale di medio formato. Il generoso formato del sensore (circa 49x37 millimetri) pone notevoli problemi di profondità di campo: com’è noto, infatti, la profondità di campo apparente diminuisce con l’aumentare della superficie di acquisizione. E’ pertanto necessario chiudere il diaframma a valori piuttosto elevati se si vuole, come nel caso illustrato, mantenere a fuoco non soltanto l’occhio, ma anche una parte significativa del corpo dell’insetto. Per questo è necessario accertarsi (consultando i risultati delle prove strumentali) che l’obiettivo sia in grado di mantenere livelli elevati di nitidezza soprattutto ai diaframmi più chiusi.

Per contro, è possibile che – a fronte di prove di laboratorio inconfutabilmente positive – l’attrezzatura da noi usata evidenzi dei limiti più o meno pesanti, in relazione all’uso che ne facciamo.
Lo Zeiss Sonnar 35mm f/2 che equipaggia la Sony RX1 è sicuramente un obiettivo di eccellenza, come del resto dimostrano i grafici MTF (Modulation Transfer Function) pubblicati in fondo a questo articolo (Foto 2).
Purtroppo, a fronte di prestazioni di elevato livello in termini di nitidezza e risoluzione, l’obiettivo soffre di una scarsa tenuta nel controluce: la presenza di fonti di luce diretta nell’inquadratura provoca non tanto perdite di nitidezza o flare (la nitidezza rimane sempre a livelli elevati), quanto piuttosto fenomeni di diffrazione della luce bianca che si evidenziano come ellissi colorate nell’angolo opposto alla fonte luminosa, come si vede nella fotografia (Foto 3) pubblicata in basso. Questa caratteristica può rivestire un’importanza praticamente nulla per chi fotografa preferibilmente con il sole alle spalle, ma per me, che uso spesso il controluce (anche diretto) come aspetto peculiare del mio linguaggio fotografico, rappresenta una limitazione non da poco.

Questo dimostra quanto i due aspetti fin qui considerati (l’attenta lettura delle prove di laboratorio e la valutazione personale effettuata nelle condizioni d’uso abituali) non possano prescindere l’uno dall’altro.

Alla prossima.

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