Michele Vacchiano Cultural Photography

Il "tip" del mese

Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere piů divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo.

NOVEMBRE 2013

Gianni Berengo Gardin e il digitale

In un'intervista rilasciata a Astrid Bianca Bemori per il mensile "Foto-notiziario" (settembre 2013), Gianni Berengo Gardin dichiara: "Io non sono contro il digitale, non mi piace perché si scontra con la mia mentalità di fotoreporter: la realtà la voglio documentare così com'è, non volendo renderla più bella in maniera artificiale. Ecco perché il digitale non mi piace. Io scrivo dietro alle mie stampe un timbro che dice 'foto non ritoccata al computer'. E' una sorta di garanzia di genuinità. E' questione di fiducia che va mantenuta con chi ti guarda. Il fotoritocco è un taroccamento per cambiare il reale."
Con tutto il rispetto dovuto ad un maestro indiscusso e indiscutibile, io temo (da semiologo, oltre che da fotografo) che a Berengo Gardin sfuggano alcuni aspetti importanti della questione.
Innanzitutto, che cosa è "reale"?
Di sicuro non la fotografia, che - contrariamente a quanto afferma un pregiudizio diffuso e difficile da sradicare - non è una "riproduzione" della realtà. Come esemplifica magistralmente il pittore René Magritte con il suo celebre dipinto Ceci n'est pas un pipe, l'immagine non è l'oggetto: anzi, tra l'immagine e l'oggetto non esiste alcuna relazione motivazionale. Una stampa bidimensionale in bianco e nero non può pretendere di "riprodurre" una realtà tridimensionale e a colori!
La fotografia traduce, non riproduce.
Essa non rappresenta un soggetto reale, ma le sensazioni che quel soggetto ha suscitato in noi, e che noi restituiamo allo spettatore dopo averle filtrate attraverso la nostra sensibilità, il nostro vissuto, la nostra visione del mondo.
La scelta dell'inquadratura, la scelta della focale e dell'illuminazione sono decisioni del tutto arbitrarie che il fotografo mette in atto per "raccontare" il soggetto secondo lo stile e le modalità che ritiene opportune e questa è già, di per sé, un'alterazione (taroccamento?) del "reale".
La seconda alterazione - forse ancora più pesante - è quella che avviene in fase di trattamento, chimico o digitale che sia. La stampa di un negativo in bianco e nero mette in gioco scelte che riguardano la resa tonale, il contrasto, la luminosità, l'inquadratura (in stampa si può tagliare parte dell'immagine per eliminare particolari indesiderati): la realizzazione di una stampa fotografica è di fatto un'elaborazione nella quale il fotografo mette in gioco nuove decisioni, anche questa volta del tutto arbitrarie e strettamente dipendenti dallo stile e dalle modalità con le quali egli vuole trasmettere il suo messaggio.
Insomma, mi dispiace dover contraddire Berengo Gardin, ma la fotografia in bianco e nero, dalla ripresa alla stampa, è già di per sé un "taroccamento".
Anche l'immagine digitale richiede un'elaborazione, ma dobbiamo intenderci bene sul vero significato del termine.
La fotografia digitale ci pone - in modo quasi brutale - di fronte alla constatazione ovvia (anche se ancora oggi mal digerita) enunciata all'inizio, e cioè che la fotografia non è una riproduzione della realtà, ma una sua traduzione, cioè un'interpretazione di ciò che vediamo, filtrata attraverso la nostra capacità di vedere e decodificare il mondo.
Lavorare (seriamente) in digitale significa riappropriarsi di ciò che la pellicola a colori ci aveva fatto dimenticare: la possibilità di curare in prima persona tutte le fasi della formazione dell'immagine, dalla progettazione alla stampa.
Contrariamente al principiante, che scatta a raffica senza curare composizione, esposizione e inquadratura, "tanto poi le aggiusto con Photoshop e quelle sbagliate le cancello", il fotografo attento sa che una buona immagine nasce al momento della ripresa, ed anzi ancora prima, nel momento in cui egli si chiede se la realtà che si trova di fronte meriti di diventare il soggetto di una fotografia.
Questo implica la necessità di prevedere e progettare - prima dello scatto! - quale sarà la destinazione finale dell'immagine e a quale tipo di trattamento la dovremo sottoporre per tradurre sulla carta da stampa l'immagine mentale che ci eravamo fatti del soggetto.
Sarà questa capacità progettuale a determinare le modalità e i parametri da utilizzare in ripresa.
Questo implica anche che la fase del trattamento - come del resto avviene nella fotografia fine art - acquisti un'importanza non inferiore a quella della ripresa. Quello che per il cinema è il montaggio (come insegna Ejzenštejn), per la fotografia digitale è la postproduzione: una realtà che le diapositive a colori ci avevano fatto dimenticare ma che è ben presente a chi fotografa, sviluppa e stampa in bianco e nero, ben sapendo che le diverse fasi della formazione dell'immagine altro non sono se non altrettanti anelli di un'unica catena volta ad ottenere un risultato accuratamente previsto e programmato.
La vera funzione della postproduzione fotografica è infatti quella di esaltare e valorizzare quelle caratteristiche dell'immagine che ci avevano spinti ad effettuare la ripresa.
Elaborare un'immagine, insomma, non significa aggiungere effetti speciali o colori inesistenti, ma evidenziarne gli aspetti salienti, cioè gli elementi "forti" che andranno a formare la struttura portante del nostro messaggio: "Che cosa voglio comunicare? Come posso metterlo in risalto?".
E' pertanto necessario che il fotografo sappia usare gli strumenti giusti per evidenziare ed esaltare ciò che davvero aveva "visto" (non solo con gli occhi) al momento della ripresa.
Insomma, quando il fotografo diminuisce la luminosità del canale del blu per rendere più interessante un cielo nuvoloso non commette un "taroccamento", ma si limita ad evidenziare informazioni già presenti nel file minimizzandone altre. Questo perché il sensore digitale registra molte più informazioni di quelle che il monitor del PC (o peggio il display della reflex) ci consente di vedere: "tirare fuori" le informazioni che ci servono minimizzando quelle inutili è una procedura più che lecita, non dissimile a quello che si attua in camera oscura durante una stampa da negativo.
Come amava affermare il musicista inglese Benjamin Britten, "Bisogna avere qualcosa da dire e saperlo dire chiaramente".
Scattare una fotografia equivale a decidere di avere qualcosa da dire; curarne il trattamento in modo adeguato aiuta a dirla chiaramente. Non importa se in camera oscura o su Lightroom.
Alla prossima.