Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

OTTOBRE 2019

Che barba! Ancora foto?

Come vi comportate quando siete in viaggio o in vacanza con famiglia, parenti e amici?
Come riuscite a ritagliarvi il tempo necessario a fotografare senza che qualcuno protesti per le vostre continue fermate?
“Che barba, ancora foto?”
“Ma non hai ancora finito?”
“Ma quanto ci metti? Non vedi quanto fa in fretta Gastone?”

Che voi abbiate una reflex e Gastone uno smartphone non fa nessuna differenza per chi è stufo di aspettarvi e – peraltro – non capisce la differenza tra le immagini create da voi e le foto della m**kia di Gastone.

Quindi è indispensabile elaborare raffinate strategie per evitare continui rimbrotti e snervanti frecciatine.

Qualche consiglio.

Quando vedete un soggetto interessante esclamate “Toh, guarda, una gelateria!”.
Magari la gelateria non c’è, ma la vostra esclamazione sarà sufficiente a creare un attimo di incertezza: tutti si guarderanno in giro alla ricerca della gelateria, i bambini (se ci sono) incominceranno a chiedere il gelato, le madri risponderanno che non c’è nessuna gelateria, ottenendo una salva di capricci, pianti, urla e sbattimento di piedi che vi concederà quei venti o trenta secondi necessari a scattare la fotografia.

Fingete un improvviso giramento di testa, che vi costringa ad appoggiarvi per qualche secondo alla spalletta del ponte sul Cannaregio.
Naturalmente, poiché avete in mano la reflex, appoggiate anche lei e scattate la foto.

Simulate un calo glicemico (lo so che avete appena fatto colazione in hotel con uova, bacon, pancake con sciroppo d’acero e succo di baobab, ma la maggior parte delle persone non sa cosa sia un calo glicemico, perciò andate tranquilli) e chiedete a quell’antipatico di Gastone il favore di andarvi ad acquistare una ciambella al bar più vicino.
Gastone, che non vuole apparire insensibile, non obietterà che il bar più vicino si trova tre miglia più indietro, nell’ultimo villaggio che avete incontrato prima di inoltrarvi nella Monument Valley: ci metterà più o meno un quarto d’ora tra andare e tornare, se guida veloce, lasciandovi persino il tempo di fotografare, una per una, le bancarelle di souvenir dei venditori Navajo.

Non crediate che i professionisti vivano felici e scevri da simili persecuzioni.

Quando viaggio con la famiglia, tutti sanno benissimo che, oltre a divertirmi, sto ANCHE lavorando, ma ciò non toglie che, dopo i primi trenta o quaranta scatti, qualcuno – dapprima timidamente, poi con sempre maggiore insistenza – mi faccia notare che, insomma, potrei anche darci un taglio, “tanto che te ne fai di tutte quelle foto?”.

Vi lascio immaginare che cosa accadeva quando lavoravo in grande formato con apparecchi a corpi mobili, portatili – è vero – ma molto più macchinosi e lenti di una reflex!

Claudia, la mia fidanzata (e poi moglie), non si scomponeva più di tanto: lei era una fotografa dilettante (anche piuttosto brava) e quelle strane macchine tutto sommato la incuriosivano.
Quando non le chiedevo di farmi da modella (cosa che la divertiva e che accettava volentieri), mi lasciava armeggiare tranquillo con le mie carabattole, approfittando della pausa per prendere il sole.

Ma con gli amici (che non erano sentimentalmente coinvolti) le cose stavano diversamente.

Un giorno, passando da Courmayeur dopo un’escursione in montagna, vidi uno spettacolare effetto di luce sull’Aiguille Noire.
Fermai la macchina, pregando gli amici che erano con me di attendere qualche minuto.
Aprii il bagagliaio e ne estrassi cavalletto e ShenHao, montai la macchina sul cavalletto e mi incamminai verso un ponte da cui pensavo di avere l’inquadratura migliore.
Lasciai sul ponte il tutto e tornai indietro per recuperare obiettivo, panno nero e châssis con le lastre: tre o quattro minuti in totale.
Poi mi accinsi a effettuare la solita procedura: montare l’obiettivo, aprire l’otturatore, osservare il vetro smerigliato col panno nero sulla testa, mettere a fuoco, decidere i millimetri di decentramento e i gradi di basculaggio, controllare col lentino di precisione la messa a fuoco ai quattro angoli del vetro smerigliato, controllare la vignettatura dovuta al basculaggio, chiudere l’otturatore, inserire lo châssis, avvitare lo scatto flessibile, fare uno scatto a vuoto per verificare di avere chiuso DAVVERO l’otturatore, estrarre il volet, premere lo scatto flessibile, inserire il volet girato dal lato bianco, estrarre lo châssis, smontare il tutto e tornare alla macchina.
In realtà tutto questo non avvenne, o avvenne solo in parte, perché – dopo avere osservato con attenzione la scena attraverso il vetro smerigliato – smontai l’attrezzatura e tornai a riporla nel bagagliaio.
Il tutto aveva comunque richiesto una decina di minuti.
“Beh? Non hai fatto la fotografia?” mi chiesero gli amici, rimasti ad aspettarmi nell’auto parcheggiata al sole.
“No” risposi, “non mi piaceva l’inquadratura.”
Non so se abbiate mai guidato da Courmayeur a Morgex e sappiate quanto tempo ci vuole, ma per tutto quel tragitto gli amici mi elencarono una serie di complimenti che – se pubblicati – mi frutterebbero al minimo una querela per turpiloquio e oltraggio al pudore a mezzo stampa.

Propongo un contratto, da stipularsi tra chi fotografa e i propri familiari e amici.
Un contratto dove si stabiliscano, nero su bianco, il numero massimo di scatti consentiti e il numero di minuti concessi alle fermate fotografiche.
Una volta firmato da entrambe le controparti, il contratto salvaguarderà tanto il fotografo (che avrà il diritto di fotografare senza essere disturbato) quanto i suoi accompagnatori (che non saranno costretti a fermate eccedenti quanto stabilito di comune accordo).

Che dite?
Il contratto vi sembra troppo cogente?
Allora andate a rileggervi i consigli che vi ho dato poco fa: le vertigini e le crisi ipoglicemiche esulano dai limiti contrattuali.

Alla prossima.