L'articolo del mese
Marzo 2017
Ospiti indesiderati: flare e immagini fantasma
Riprendiamo e approfondiamo un vecchio articolo apparso nel 2005 su “Nadir”, oggi ancora più attuale di allora, data la diffusione ormai capillare di reflex entry-level equipaggiate con obiettivi zoom di tipo economico.
Niente di male, ovviamente, ma una delle lamentele più frequenti di chi si iscrive ai miei corsi è la pessima qualità delle riprese effettuate controluce.
La colpa di questa cattiva qualità è dovuta essenzialmente a due fattori: il cosiddetto flare e le immagini fantasma del foro del diaframma.
Fenomeni che vengono spesso accomunati sotto la comune denominazione di flare, ma che noi, più che altro per chiarezza, terremo separati.
Definizioni
Per flare (pronunciatelo all’americana) indicheremo una generale perdita di nitidezza dell’immagine, accompagnata da aloni di luce diffusa ed effetto-foschia.
Questo fenomeno può essere – oppure no – accompagnato da cerchietti colorati o mezzelune luminose che si formano all’interno dell’immagine, e che altro non sono se non “immagini-fantasma” del foro del diaframma.
Non sempre i due fenomeni si verificano insieme, ed è per questa ragione che non li abbiamo accomunati sotto un’unica etichetta, anche se la loro origine ha cause comuni.
Le cause
Quando si parla di riflessi parassiti e di flare viene di solito tirato in ballo il trattamento antiriflesso.
In realtà un trattamento antiriflesso inesistente o carente non è l’unico colpevole: è vero, alcuni zoom economici sono trattati solo su alcune lenti e non su tutte, la presenza di lenti in plastica anziché in vetro potrebbe – a detta di molti – peggiorare le cose; ma le cause dei fenomeni di cui ci stiamo occupando sono, in realtà, più complesse.
Non solo rifrazione
La prima causa della presenza di riflessi interni e rifrazioni parassite risiede nella conformazione stessa dell’obiettivo: la forma, la curvatura, la disposizione delle lenti, ma soprattutto il loro numero, influiscono pesantemente sulla nitidezza.
In linea teorica, quanto più un disegno ottico è semplice (composto cioè da poche lenti) tanto meno elevato sarà il rischio di perdite di nitidezza.
La lente è un mezzo più denso dell’aria capace di rifrangere (cioè piegare) i raggi di luce che la attraversano.
L’indice di rifrazione è la capacità della lente di piegare il raggio luminoso, e dipende da diversi fattori tra i quali la curvatura della lente e il materiale di cui è fatta.
La luce rifratta dalla lente va a focalizzarsi sul piano focale, cioè il piano su cui giacciono la pellicola, il sensore o l’occhio dell’osservatore.
Se tutto funzionasse così non ci sarebbero problemi di sorta.
Purtroppo, però, la lente non è soltanto un mezzo trasparente attraverso cui la luce passa, ma è anche un corpo solido caratterizzato da superfici capaci di rifletterla.
Perciò, un raggio di luce che colpisce una lente spostandosi dall’aria al vetro viene in parte rifratto (come è giusto che sia) e in parte riflesso all’indietro.
Allo stesso modo, nel passaggio successivo (dal vetro all’aria), una parte del raggio rifratto sarà di nuovo riflesso all’interno della lente stessa.
La figura 1, illustra in modo schematico il fenomeno.
Queste riflessioni parassite provocano una diminuzione della quantità di luce che attraversa la lente e conseguentemente una diminuzione del contrasto.
Moltiplicando quanto descritto per il numero di lenti che costituisce un obiettivo, ci si può spiegare perché il contrasto globale di un’immagine possa risultare appena la metà del contrasto presente nella scena inquadrata.
Meglio poche
Si capisce quindi perché gli obiettivi zoom (il cui elevato numero di lenti è giustificato – oltre che dalla necessità di correggere le aberrazioni – dall’esigenza di assicurare in modo continuo la variazione di focale) siano quelli più a rischio.
Un’analoga criticità si riscontra negli schemi retrofocus che caratterizzano gli obiettivi grandangolari destinati ai sistemi reflex.
Purtroppo a questo non c’è rimedio (tutti i grandangolari destinati alle reflex sono a schema retrofocus, altrimenti lo specchio, sollevandosi, andrebbe a frantumarsi contro la montatura posteriore dell’obiettivo), perciò non resta che utilizzare consapevolmente questi obiettivi, evitando ad esempio i controluce più spinti.
Protezione da che?
Altre cause di flare possono essere rappresentate dall’abitudine di usare i cosiddetti “filtri di protezione” permanentemente montati davanti all’obiettivo.
Questa pessima abitudine ha una doppia origine.
Prima di tutto, chi usa questi filtri è convinto che essi contribuiscano a schermare la lente frontale dai raggi ultravioletti, “colpevoli” di abbassare la nitidezza dell’immagine.
Questa convinzione risale ai tempi della pellicola (effettivamente sensibile all’ultravioletto), ma non ha nessun fondamento nella fotografia digitale: la risposta del sensore alla radiazione ultravioletta è praticamente nulla (grazie soprattutto al filtro low-pass anteposto al sensore stesso).
La seconda motivazione è dettata dalla preoccupazione di “proteggere” la lente frontale.
Okay, ma da cosa?
Se si è preoccupati per la polvere, allora basta tenere pulita la lente frontale, ricorrendo regolarmente a un kit di pulizia; se non lo si fa, l’immagine ne soffrirà comunque, dato che la polvere (pur non depositandosi direttamente sulla lente frontale) si depositerà sul filtro.
Se si è preoccupati per il grasso o le ditate, basta evitare di toccare con le dita la lente frontale (non è difficile, diamine!), ricordandosi anche che una spatola è preferibile all’obiettivo quando si vogliono imburrare le tartine.
Se si è preoccupati per gli urti, la migliore protezione è rappresentata da un buon paraluce rigido, piuttosto che da una lastrina di vetro o di plastica avvitata all’obiettivo.
Si tenga conto, inoltre, che i filtri economici (quelli più acquistati dai dilettanti) possono presentare anomalie quali un non perfetto parallelismo tra le due superfici, e indurre così difetti di rifrazione. Infine – a meno che non si usino filtri originali, cioè prodotti dallo stesso fabbricante dell’obiettivo – il trattamento antiriflesso presente sul filtro (quando c’è) non sarà lo stesso a cui è stato sottoposto l’obiettivo stesso: questo può provocare fenomeni di interferenza dovuti alla diversa composizione chimica e alla struttura molecolare delle sostanze depositate sulle superfici.
Le soluzioni
Le soluzioni al problema appartengono a due categorie distinte.
L’importanza di un buon progetto
La prima categoria è legata alla progettazione e alla lavorazione del sistema ottico, ed è pertanto un compito che grava sul produttore e non sul fotografo.
Innanzitutto è importante, a livello di progettazione, mantenere contenuto il numero di lenti che costituisce un obiettivo.
In teoria un obiettivo potrebbe essere costituito da una sola lente convergente.
Questa, tuttavia, presenterebbe una quantità di aberrazioni incompatibile con un livello accettabile di qualità di immagine.
La correzione delle aberrazioni è il motivo che spinge i progettisti ad aumentare il numero di lenti all’interno del sistema.
Questo numero può essere mantenuto basso da un’accurata progettazione: la scelta del vetro, la curvatura e lo spessore delle lenti, la loro distanza reciproca, il posizionamento del diaframma sono elementi discriminanti per la riuscita di un progetto ottico.
È questo (e non certo la quantità di vetro usato) che determina il pregio di un obiettivo: si pensi a obiettivi prestigiosi (e costosi) come i vecchi Leitz Telyt o i Novoflex “lungo-fuoco” da 400 millimetri e oltre, costituiti da un semplice doppietto acromatico anteriore.
L’uso di vetri speciali “sgancia” l’indice di rifrazione dall’indice di dispersione, migliorando la trasmissione spettrale all’interno del sistema.
Il trattamento antiriflesso
Un ulteriore espediente utilizzato per tenere sotto controllo i riflessi interni è costituito dal trattamento antiriflesso: una sostanza (o una miscela di sostanze) viene depositata per sublimazione sulla superficie delle lenti, in modo da formare uno o più strati capaci di intercettare e bloccare i raggi riflessi.
Questo serve a ottimizzare la trasmissione della luce all’interno del sistema, aumentando la percentuale di contrasto.
La diminuzione del flare e delle immagini fantasma è un (gradito) effetto collaterale, ma non è lo scopo primario del trattamento antiriflesso.
Già nel 1896 Taylor (l’ideatore del tripletto di Cooke) aveva osservato che le lenti più vecchie, rese opache dall’usura, trasmettevano una quantità di luce maggiore di quanto non facessero le lenti nuove e appena lucidate.
Taylor ne dedusse correttamente che lo strato più opaco doveva essere caratterizzato da un indice di rifrazione inferiore a quello del vetro, e che di conseguenza era in grado di riflettere meno luce, permettendo una rifrazione migliore.
Nel 1935, alla Carl Zeiss di Jena, un team guidato dal dottor Alexander Smakula ideò e brevettò il primo trattamento antiriflesso a base di fluoruro di magnesio, denominato “T” (dal tedesco Transparenz).
L’invenzione fu coperta da segreto militare (il trattamento era destinato agli obiettivi per fotografia aerea e ai binocoli in uso all’esercito del Terzo Reich) fino agli inizi della seconda guerra mondiale, quando il trattamento antiriflesso iniziò ad essere diffuso tra gli ottici e applicato agli occhiali da vista.
Sempre in casa Zeiss nacque il trattamento antiriflesso multistrato, denominato T-Star (T*), capace – secondo le dichiarazioni della casa tedesca – di trasmettere oltre il 90% della luce rifratta.
Alla fine degli anni Sessanta, Asahi brevettò il metodo SMC (Super Multi Coating) affermando – tra lo scetticismo generale – di riuscire a stendere ben sette strati antiriflesso sulla superficie delle lenti.
Fuji rispose di essere ancora più avanti nella ricerca, dato che il suo sistema EBC (Electron Beam Coating) prevedeva ben undici strati.
Applicato, fino a quel momento, ai soli obiettivi cinematografici, il sistema EBC venne esteso presto anche agli obiettivi per fotocamere.
Gli ultimi a convincersi dell’efficacia del trattamento antiriflesso furono i progettisti della Leitz, che tuttavia lo adottarono allo scadere del brevetto Asahi.
Oggi il trattamento multistrato è uno degli elementi di forza di case come Zeiss o Rodenstock (che lo utilizza anche per i suoi occhiali da vista).
Come si riconosce se un obiettivo è protetto da un trattamento antiriflesso multistrato?
Tutti gli obiettivi prodotti a partire dagli anni Ottanta ne sono dotati: il problema può riguardare certe ottiche più vecchie acquistate sul mercato dell’usato (questa è una delle tante buone ragioni per non acquistare obiettivi usati troppo vecchi, credendo – erroneamente – che “come li facevano una volta non li fanno più”).
La verifica più semplice consiste nell’osservare la montatura in metallo dell’obiettivo: il trattamento antiriflesso può essere identificato dalla sigla MC (multicoated), oppure – per gli obiettivi Fujinon – dalla sigla EBC; gli Zeiss riportano invece la famosa “T” seguita dall’asterisco (T*, figura 2).
Una prova empirica consiste nell’osservare la lente frontale in luce radente: la presenza di riflessi multicolori denota la presenza di un trattamento antiriflesso multistrato (figura 3).
Che cosa può fare il fotografo
Che cosa può fare invece il fotografo per minimizzare gli effetti del flare?
1. Scegliere obiettivi dallo schema ottico semplice, possibilmente a focale fissa (non zoom), valutando attentamente – tra due obiettivi di pari focale ma di differente luminosità – se davvero c’è bisogno di quel diaframma in più, che non solo si rivelerà oneroso in termini economici, ma che soprattutto potrebbe dimostrarsi dannoso in termini di qualità di immagine, a causa del maggior numero di lenti necessario a correggere le aberrazioni presenti alle maggiori aperture.
2. Nelle lunghe focali, privilegiare gli schemi lungo fuoco o i derivati del tripletto di Cooke piuttosto che gli schemi a teleobiettivo, per loro natura più critici e bisognosi di un maggior numero di elementi destinati a correggere le numerose aberrazioni insite nel disegno originario.
È ovvio che per fare questo bisogna saper riconoscere a quale famiglia appartiene uno schema ottico, ma per fortuna Internet ci offre possibilità di ricerca e di verifica illimitate.
3. Tenere pulita la lente frontale dell’obiettivo: bastano una pompetta per la polvere e un panno in microfibra.
4. Usare sempre il paraluce, che – come vedremo – non fa miracoli quando la fonte di luce viene direttamente inquadrata, ma aiuta a eliminare l’eccesso di luce riflessa dalle superfici (e dal cielo), luce che non contribuisce alla formazione dell’immagine ma che egualmente può sfiorare la lente frontale aumentando le riflessioni parassite e la perdita di contrasto.
5. Infine, anche la post-produzione può aiutare: una singola macchiolina colorata può essere facilmente eliminata con gli strumenti di fotoritocco.
La figura 4a, scattata all’interno del Bryce Canyon (Utah), presenta una piccola macchia verdastra nell’angolo opposto al sole (indicata dalla freccia ed evidenziata dall’ingrandimento nella figura 4b).
La figura 4c è l’immagine corretta con un semplice intervento del timbro clone: la scelta di diversi punti sorgente molto piccoli ha evitato innaturali segni di ripetizione.
Leggende metropolitane
A questo punto è giunto il momento di fare chiarezza su alcuni preconcetti e “leggende metropolitane” che impediscono una chiara visione del problema e delle sue soluzioni.
Elenchiamo le più diffuse (e perniciose).
1. Il trattamento antiriflesso è sufficiente a consentirci di fotografare il sole senza produrre flare o immagini fantasma del foro del diaframma.
Sarebbe bello, ma non è così che funziona.
Il trattamento antiriflesso è una componente necessaria, ma non sufficiente a garantire la totale nitidezza, in quanto deve sempre essere accompagnato da uno schema ottico accuratamente progettato e da un numero di lenti non eccessivo: ricordo che, ancora negli anni Settanta, in casa Leitz si attribuiva al ridotto numero di lenti un’importanza maggiore di quanta non se ne desse al trattamento multistrato.
2. Il paraluce risolve tutti i problemi.
No, almeno non quando la fonte di luce entra direttamente nell’obiettivo.
Esso è comunque in grado di migliorare la nitidezza generale grazie alla sua capacità di bloccare i raggi di luce che provengono da aree estranee al campo inquadrato e che colpiscono obliquamente la lente frontale.
3. Il filtro polarizzatore migliora il contrasto.
Assolutamente no: l’efficacia del polarizzatore è nulla nelle riprese controluce; il suo uso, anzi, può rivelarsi dannoso a causa dei riflessi in più generati da un’ulteriore coppia di superfici aria-vetro applicata davanti all’obiettivo.
Per lo stesso motivo – lo abbiamo già detto ma lo ripetiamo – vanno rimossi (e mai più utilizzati, per favore) tutti quei filtri che il dilettante lascia costantemente avvitati alla filettatura dei suoi obiettivi allo scopo di “proteggere” la lente frontale da urti e polvere.
Il controluce e l’esposizione
Il controluce o la presenza di riflessi (sull’acqua, sulla neve o su altre superfici) ingannano l’esposimetro, che tende a fornire immagini sottoesposte (figura 5).
Quando si vuole fotografare il sole alto nel cielo, occorre evitare che il paesaggio risulti troppo scuro (se il cielo è esposto correttamente) o al contrario che il cielo si tinga di un biancore insignificante e slavato (se si espone per il paesaggio).
Una delle possibili soluzioni è il ricorso a un filtro digradante grigio-neutro, che decrementa l’esposizione nella zona del cielo e riequilibra lo scarto tonale esistente tra questo e il paesaggio terrestre, anche se – su questo non si insisterà mai abbastanza – i migliori risultati si otterranno soltanto ricorrendo a un’accurata, ragionata e meticolosa scelta dell’esposizione.
Non bisogna poi sottovalutare l’importanza fondamentale del trattamento, o postproduzione: i più recenti software di trattamento del RAW consentono di intervenire separatamente sulle ombre e sulle alte luci, permettendo di equilibrare l’immagine migliorandone la leggibilità.
Senza dimenticare la possibilità di utilizzare il filtro digradante digitale, o gli strumenti di regolazione locale, che consentono di dosare con estrema precisione l’esposizione, il contrasto, la temperatura cromatica della zona interessata. Le figure 6a e 6b mostrano quello che si può fare con un uso attento degli strumenti di postproduzione, senza alterare l’essenza dell’immagine ma semplicemente “tirando fuori” le sue caratteristiche salienti, cioè quelle che avevamo “visto” al momento della ripresa e che ci avevano spinto a scattare la foto.
C’è a chi piace…
Gli aloni e i riflessi che si generano nell’obiettivo quando si riprende controsole sono spesso inseriti nella grafica dei videogiochi: la loro presenza suggerisce una situazione di luce accecante, suggerendo le sensazioni che si provano in un ambiente torrido e assolato.
Anche nel cinema viene usato, non saprei dire se per moda o perché i registi lo considerano un male inevitabile.
C’è chi lo aggiunge in postproduzione (a volte con risultati inguardabili)…
Insomma, anche gli errori hanno talvolta una loro ragione di essere (almeno così credono alcuni).
Per quanto mi riguarda, non ho mai incontrato un cliente esperto (come lo sono le agenzie fotogiornalistiche con cui collaboro) che accettasse una fotografia affetta da evidente flare o da cerchietti luminosi, a meno che l’immagine non fosse talmente spettacolare e il difetto talmente piccolo da consentire a chi giudicava l’immagine di… chiudere un occhio.
La figura 7 è stata accettata senza problemi dal cliente, nonostante l’evidente riflesso colorato che la luce solare ha creato in corrispondenza del parapetto in pietra, nella parte bassa dell’immagine.
Sarò pignolo, ma pur essendo contento di averla venduta senza problemi, continuo a non essere soddisfatto della fotografia e mi ripropongo di tornare sul posto con un obiettivo più adeguato: devo rifarla senza quella dannata macchia!
Perciò, se tenete alla qualità, sapete che cosa fare, ma soprattutto che cosa non fare.
Alla prossima.