Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

Aprile 2017

Fotorisate (ricordi spassosi di una lunga carriera)

Alcuni di questi episodi li avevo già raccontati in un vecchio articolo su “Nadir”, ma poiché la stupidità umana non conosce limiti, a quelle vecchie storielle se ne sono aggiunte di nuove, altrettanto (forse più) spassose.

Molti anni fa (circa una ventina) mi trovavo in Valle dell’Orco, sul Lago Serrù, a fotografare con il grande formato.
In quel periodo utilizzavo una Wista DX con il Rodenstock da 150 millimetri.
Come è facile immaginare, quando si fotografa con uno di quegli improbabili aggeggi, i curiosi si materializzano da ogni dove (come scrissi molti anni fa, il teletrasporto esiste e un complotto internazionale fa sì che solo io ne ignori l’esistenza).
Si trattava in questo caso di un gruppo di giovani femmine, che mi osservarono in silenzio per pochi secondi e poi iniziarono a sparare domande, parlando tutte insieme e impedendomi di fatto ogni possibile risposta: “Sei un geometra?”
“Ma guarda che strana cosa, fa le cartoline?”
“Ma cos’è, una Zenza?” [una Zenza? Da dove diavolo avrà riesumato quel nome !?]  
“A cosa serve quel tubo molle? Perché ci infili la testa?”
“Ma cosa si vede da lì?”
“Il lago” risposi, “si vede il lago”.
Ah, commentarono deluse quasi all’unisono, come a voler dire: il lago lo vediamo anche noi...

Sirmione (Lago di Garda), corso di fotografia in grande formato.
C’era anche un mio caro amico, il fotografo di moda Roberto Gandoli, che penso se ne ricordi bene.
Eravamo lì a fotografare, cinque persone con cavalletti, lastre e corpi mobili, quando si avvicinò il solito curioso.
Osservò in silenzio per qualche minuto, aggirandoci con circospezione, poi afferrò il coraggio a due mani e sussurrò timidamente: “Siete appassionati di fotografia?”
La domanda era talmente idiota che ne rimasi spiazzato, del tutto incapace di una qualsiasi reazione.
Fu proprio Roberto a inventarsi la risposta geniale: “No, guardi, ci fa schifo. Siamo qui solo perché trascinati da questo fanatico [indicando il sottoscritto] che ci ricatta e ci minaccia se non lo seguiamo”.

Sempre sul Garda, ma lontano dall’abitato, mi si avvicinò un tizio con moglie e cappello, uno di quei pensionati che non hanno altro da fare se non prendersela con il sindaco, la giunta, la politica e la pubblica amministrazione nella sua generalità.
Mi vide con la ShenHao, mi scambiò come al solito per un geometra (ma possibile che nessuno distingua una macchina fotografica da un teodolite?) e iniziò a inveire contro di me, evidentemente contrariato da qualcosa che aveva a che fare con l’assessorato ai lavori pubblici e che doveva essere costruito in riva al lago.
Gli spiegai che ero un fotografo e che non c’entravo niente con l’amministrazione comunale, ma lui, non pago, approfittò della mia risposta per intraprendere una filippica contro i turisti che invadono Sirmione e fotografano tutto, compresa la facciata di casa sua.
Ribattei, gentilmente, che stavo fotografando il lago e non la sua casa, ma subito dopo aggiunsi, altrettanto gentilmente ma con fermezza, che stavo lavorando e che se non aveva niente di intelligente da dirmi poteva anche continuare la sua passeggiata.
Si allontanò brontolando contro quelli come me che ingombrano il lungolago (deserto) con i cavalletti...

Altra location e altri curiosi: lungomare di Nervi (Genova), solito corso di fotografia in grande formato e solita domanda: “Siete geometri?”
Questa volta ero preparato: “Sì signora” risposi, “vede quella scogliera? Lì viene un bel battuto di cemento e un parcheggio: mille macchine!”
La megera ammutolì, mi guardò come se avessi la tigna, poi si voltò senza salutare e se ne andò indignata esclamando “Ve’, ma che brutto!”

Aosta, chiostro della Collegiata di S. Orso.
Il solito curioso aveva già iniziato a ronzarmi intorno da tempo.
Feci finta di non vederlo, armeggiando indaffarato con i miei congegni.
“È una macchina a lastre, vero?”
“Mhm” risposi, e già questo avrebbe dovuto essergli chiaro.
“Sa, io un po’ ne capisco” insisté, nell’evidente quanto vano tentativo di mettermi a mio agio.
Ma questa volta non risposi neppure.
“Ne ho una così in soffitta”, continuò.
Gli lanciai di sfuggita un’occhiata rovente: sapevo dove voleva andare a parare.
“Eh, sì, era una Kodak seipernove, con l’obiettivo ormai quasi smerigliato. La usava mio nonno. Sull’obiettivo si legge qualcosa come… Grog”.
“Goerz” lo corressi, chissà poi perché.
“Ecco! Ecco!” s’illuminò il cretino: “Gorz!”
Un istante di silenzio.
“Anche il suo è un Gr... Gorz? Gherz?”
“No. E questa non è come la macchina di suo nonno. È un apparecchio moderno”.
“Ah” mormorò quasi deluso. “E cosa si può fare con questa macchina?”
“Tutto”. E non dissi altro.
“Mmm, tutto eh? Ma... ma è elettronica?”
Mi sentivo come Lupo Alberto quando tenta di indurre alla ragione l’ottuso quanto inflessibile Mosè.
Cercai una risposta che lo spiazzasse definitivamente e la trovai.
Lo guardai dritto negli occhi, e con l’espressione di chi sta per svelare al nemico i piani del missile Cruise sussurrai: “Dipende”.
Restò interdetto per qualche secondo, poi senza salutarmi girò i tacchi e si allontanò borbottando tra sé: “Eh, dipende... già... già... bof... mah... eh già, dipende... boh!”
Fu la mia più grande soddisfazione, quel giorno.

Ru Cortod (Valle d’Ayas).
Era il mese di settembre, i turisti estivi erano tornati in città, il cielo era limpido, l’aria dei duemila metri fresca e frizzante.
Ci stavamo muovendo tra boschi e prati, i miei allievi ed io, sempre seguendo il corso del Ru, accompagnati dallo sciabordio dell’acqua.
Intorno a noi non c’era anima viva, a parte qualche mucca al pascolo nei prati sottostanti.
Le creste alla nostra sinistra erano già spruzzate di neve; di fronte a noi, lungo tutto il percorso, l’imponente spettacolo dei ghiacciai perenni.
Trovammo un punto paesaggisticamente interessante e aprimmo le zampe dei cavalletti.
Contemporaneamente una comitiva di turisti si materializzò lì accanto: il solito teletrasporto di cui solo io vengo tenuto all’oscuro.
Come da copione, tre o quattro si avvicinarono incuriositi, nell’evidente intento – ché altro non potrebbe essere – di rompere le scatole.
Ma questa volta non mi lasciai cogliere impreparato: la miglior difesa è l’attacco, sosteneva il principe di Metternich (e se non fu lui a dirlo, poco importa).
Fingendomi intento nel mio lavoro e facendo mostra di non essermi accorto della presenza dei disturbatori, ficcai la testa sotto il panno nero.
Prevista, puntuale e accuratamente calcolata giunse la domanda, sussurrata ma perfettamente udibile: “Ugo, ma perché quel tipo infila la testa in quel tubo argentato?”
Ugo non fece in tempo a rispondere, perché prima ancora che lui potesse capire il senso della domanda io sbucai da sotto il panno nero lanciando un urlo terrorizzato, con tanto di occhi spiritati, come se avessi visto il diavolo in persona materializzarsi sul vetro smerigliato.
Nel giro di tre secondi la radura si svuotò: uno così dev’essere matto forte ed è meglio non stare da soli con lui a duemila metri di quota.
Ma il fatto era che non vedevo più nemmeno i miei allievi... Ah, no, eccoli lì, rannicchiati a terra che si scompisciavano dalle risate…

Evidentemente gli apparecchi a corpi mobili, con il loro soffietto e il panno nero (anche se in versione tecnologica) incutono un certo timore.
Una volta una nonna che portava a spasso il nipotino, vedendomi armeggiare con una monumentale Sinar P, afferrò il polso del bambino e lo trascinò lontano esclamando: “Vieni via, Filippo, che da lì escono i raggi!”

Altre volte il commento tradisce la commiserazione: “Ma perché fotografa con una macchina vecchia?”
Oppure lo scherno: “Dieci minuti a fare una fotografia, io col telefonino ci metto un secondo!”

Spesso il problema deriva dall’atteggiamento delle pubbliche amministrazioni e da funzionari del tutto impreparati ad affrontare situazioni impreviste.
Aspettavo un gruppo di ShenHao dalla Cina: sarebbero state affidate, come materiale didattico, agli allievi di uno dei miei corsi.
Erano passati ormai parecchi giorni da quando la FedEx mi aveva avvisato dell’avvenuta spedizione, ma il pacco non arrivava.
Sospettai che per qualche motivo fosse fermo in dogana a Milano, per cui cercai di mettermi in contatto con l’Agenzia delle Dogane.
Dopo tre mail senza risposta e alcune faticose telefonate, mi fu detto che il pacco era fermo perché non si riusciva a capire che cosa contenesse, e di conseguenza non si poteva classificare correttamente ai fini dell’applicazione della tariffa doganale.
Risposi che conteneva macchine fotografiche, ma il buon funzionario all’altro capo del filo credette che lo prendessi in giro: una macchina fotografica è una scatola di metallo, di solito nera, con davanti un obiettivo; lì c’era una valigetta di legno con un buco davanti, un vetro dietro e in mezzo un coso molle tutto pieghettato…
Cercai inutilmente di spiegare la realtà dei fatti, rendendomi ben presto conto dell’inutilità dei miei sforzi, così mi venne un’idea: “Sono strumenti scientifici” dichiarai: “servono per esperimenti di fisica ottica” (dopo tutto non era una bugia, chiamiamola realtà aumentata).
Il brav’uomo si convinse, poté applicare la tariffa doganale e due giorni dopo io entrai in possesso del mio pacco.

Oggi non uso più apparecchi a corpi mobili: il mondo è cambiato e il mercato con esso.
Tuttavia, uno che con la fotografia ci lavora (oltre che divertircisi) suscita sempre una certa attenzione, quando non una malcelata diffidenza.
Si sa, il professionista usa spesso apparecchi un po’ diversi da quelli che si vedono al collo dei turisti; a volte usa il flash (persino di giorno!), quando non addirittura il cavalletto, strumento quasi ignoto al principiante e frequente fonte di sospetto per i tutori dell’ordine costituito.
Perciò nemmeno il digitale sfugge alle considerazioni di chi sembra voler perdere ogni occasione per stare zitto.

Torino, Villa Tesoriera, oggi sede della Biblioteca Musicale “Andrea Della Corte”.
Stavo fotografando gli esterni e gli interni della villa settecentesca, appena ristrutturata e restaurata, pochi giorni prima che la biblioteca fosse inaugurata.
Phase One con dorso digitale, obiettivi da 28 e da 150 millimetri (il primo per le vedute d’insieme dei saloni, il secondo per i particolari degli affreschi), un cavalletto robusto e stabile, cavo di scatto flessibile e specchio sollevato per minimizzare le vibrazioni.
Ero talmente concentrato nel lavoro che la voce mi fece trasalire: “Sono un architetto!”
Mi voltai verso il mio interlocutore, che come al solito era apparso dal nulla alle mie spalle.
Fui incerto sulla risposta da dargli: potevo scegliere tra “io no”, “e chissenefrega”, “piacere”, “io invece sono del Leone”…
La sua seconda battuta fu meno neutrale: “Che ci fa lei qui?”
“Lavoro per il Settore Biblioteche” risposi. “Devo fotografare le sale e gli affreschi restaurati prima dell’inaugurazione”.
Si tranquillizzò, apprendendo che non ero un abusivo infiltratosi fraudolentemente nel cantiere.
Speravo che, una volta rassicurato sulle mie intenzioni, tornasse al suo lavoro e mi lasciasse fare il mio, ma ovviamente non fu così.
Incominciò a interessarsi morbosamente a ciò che stavo facendo, subissandomi di domande e facendosi spiegare che cosa fosse quel filo elettrico con un bottone in cima che tenevo in mano, perché avessi la macchina montata sul treppiede, perché sostituissi l’obiettivo quando sarebbe stato così comodo uno zoom, perché trascorreva così tanto tempo da quando schiacciavo il bottone a quando si sentiva il rumore, e infine di che sottomarca fosse quella strana macchina che lui non aveva mai sentito nominare, dato che le conosceva tutte.
“Le conosce tutte?” chiesi. “Anche lei si occupa di fotografia?”
“No, rispose, ma abito in corso Siracusa e davanti a casa mia c’è un negozio di fotografia. Ci passo sempre davanti quando vado al lavoro e leggo tutte le marche: Nixon, Cannon, Pontiax, Sony [l’unica che pronunciò in modo corretto, forse perché possedeva un televisore di quella marca]”.
“Complimenti” risposi senza alcuna sfumatura di ironia nella voce: “lei è un vero esperto. Tuttavia, macchine come questa non si vedono nei negozi, se non molto raramente: di solito i professionisti le acquistano direttamente dagli importatori”.
“Ah, ho capito” rispose con aria furbetta: “l’ha presa in quel posto là, al confine con la Svizzera, dove non si paga l’IVA… Lavagna? Lavinia?”
“Livigno” corressi. “No, non l’ho presa a Livigno, e le garantisco che l’IVA l’ho pagata tutta”:
“Uhm, sarà…” commentò poco convinto, avviandosi verso l’uscita senza neppure un cenno di saluto.
Lui avrà pensato che quella strana macchina di marca sconosciuta l’avessi trovata nel fustino del detersivo, ma io mi chiedo ancora oggi chi diavolo possa avergli dato una laurea in architettura…

Sempre in tema di biblioteche, alcuni anni prima dell’episodio appena raccontato, stavo fotografando l’inaugurazione di una nuova sede territoriale: assessore, vicesindaco, architetti, dirigenti… insomma l’establishment che si riunisce in queste occasioni ufficiali.
Insieme a me, un giovanotto con una bridge di fascia economica, incaricato dello stesso lavoro da un altro settore del Comune.
Avevo deciso di non usare la macchina dell’ufficio (una Canon 5D) ma di portare da casa la Hasselblad 503CW con il dorso digitale V96C (all’epoca, un mostro sacro) e il Metz-45 CL4.
Persino un lattante avrebbe notato la differenza tra la mia attrezzatura e la sua: dal letame al risotto, come dice un amico che vive a Novara e quindi di risotto se ne intende (di letame non so).
Ma io non sono uno che se la tira, per me si tratta di lavoro e se uso delle buone attrezzature è solo perché mi piace fare le cose bene e con gli strumenti più performanti che posso permettermi.
Per cui lo salutai gentilmente e gli lasciai spazio, cercando di essere il meno appariscente possibile, anzi sentendomi quasi in imbarazzo per la mia non voluta ostentazione.
Ma il mio torinesissimo understatement non fu sufficiente a tenere a bada il cretinotto, che mi guardò, fissò il mio armamentario e commentò con sufficienza: “Eh, ma ancora la Hasselblad!?”
Non gli risposi, non perché fossi rimasto senza parole, ma perché sarebbe stato inutile: dare a un simile demente ciò che meritava sarebbe stato come bombardare una casa di riposo.

Divertente è anche l’atteggiamento dei curiosi quando si tratta di macrofotografia.
Quando vedono un fotografo intento a puntare un soggetto apparentemente insulso, come un ramo, un muro o il terreno, di sicuro non immaginano che l’obiettivo stia in realtà inquadrando un qualcosa di molto piccolo, quasi invisibile per chi non sia abituato a concentrarsi sui particolari.
Per cui ovviamente si fermano, cercando di capire cosa diavolo stia fotografando quello strano tipo.
Spesso si allontanano mormorando commenti sulla stramberia della mente umana, e tutto finisce lì, ma talvolta la curiosità ha la meglio, e allora rimangono fino alla fine, cioè fino a quando il fotografo non raccoglie tutto il suo armamentario per dedicarsi a un nuovo soggetto.
È allora che arriva la domanda: “Scusi, ma cosa stava fotografando?”.
Ed è allora che mi diverto a épater le bourgeois, rispondendo, con tono complice e un sorriso sornione: “Ragni!”
Se nel gruppo sono presenti delle signore, l’effetto comico è assicurato!

Un giorno d’estate di molti anni fa, lungo il sentiero in quota che dal rifugio Vittorio Sella porta ai casolari dell’Herbetet (Valle di Cogne), stavo appunto fotografando ragni e insetti di varie specie, quando mi imbattei in una coppia di turisti, già di una certa età.
Il marito stava fumando una sigaretta, seduto su una roccia a lato del sentiero; la moglie, con la massima tranquillità, raccoglieva fiori a man bassa nei prati intorno.
Ora, quel luogo si trova in pieno Parco Nazionale, dove non solo è vietato abbandonare i sentieri, ma soprattutto è vietato raccogliere qualunque cosa, figuriamoci i fiori.
Personalmente rimango molto infastidito da simili atteggiamenti: che bisogno hai di portarti a casa un mazzolino di fiori rubati alla montagna, cresciuti con fatica in un ambiente estremo, che dopo neanche mezza giornata saranno marci e da buttare via?
Per cui mi avvicinai alla madama, fingendomi intento a fotografare, e mentre lei era china a culo in aria, pervicacemente concentrata nella sua opera di devastazione, iniziai a pestare furiosamente un piede in terra, esclamando con voce inorridita: “Aaah! Bestiacce!”.
La signora fece un salto che nemmeno la Kostadinova, e con la faccia color plum cake del Mulino Bianco balbettò: “M… ma c… cos…”
La guardai con aria disgustata, sussurrando: “È pieno di queste schifezze, qui intorno”, e così dicendo le mostrai il display della mia reflex, dove campeggiava il primo piano, molto ravvicinato, di un innocuo ma orripilante ragnetto, con i suoi otto occhietti neri e i cheliceri gonfi di veleno in posizione di attacco.
Sono certo che da quel giorno la signora abbia iniziato a frequentare la fioraia sotto casa…

Talvolta, poi, capita di incontrare chi è convinto di sapere tutto, compresa la natura e le funzioni dell’attrezzatura che portiamo al collo.
Ero a Barcellona e passeggiavo tranquillamente sulla Rambla con una Canon al collo.
Prima della partenza, avevo acquistato una “Camera Armor”, un guscio di silicone realizzato su misura delle reflex più diffuse e concepito per proteggere la carrozzeria da urti o graffi (al ritorno l’ho rivenduto, giudicandolo alquanto inutile).
Un tale che camminava in senso opposto al mio si avvicinò, indicò la mia reflex con guscio e chiese: “Is it a diving camera?”
“Sorry?” risposi, impreparato a una simile domanda.
“Is it for underwater photography?” precisò.
“Oh, no, no, it’s only a protection for the camera”.
“Really?”
“Yes, it fits the camera like a glove and allows all controls. It’s good for travelers”.
“Uhm” commentò il tipo, del tutto inaspettatamente: “I don’t think you are right”.
Rimasi spiazzato: mi stava dando del bugiardo o pensava che non sapessi cosa avevo in mano?
Ma quello che disse dopo fu ancora più scioccante: “But I tell you what: let’s throw your camera in that fountain and you’ll see that I’m right!”
Okay, era completamente matto.
Approfittando del fatto che ero rimasto indietro rispetto al mio gruppo, alzai una mano e gridai “Arrivo!”, sganciandomi il più in fretta possibile da quell’invasato.

L’ultimo episodio divertente risale a un recente viaggio negli Stati Uniti.
Mentre i miei figli studiavano il modo più creativo di ammazzarsi arrampicandosi sulle pareti di arenaria, io ero intento a fotografare il Double Arch, nel territorio dell’Arches National Park (Utah), alla ricerca di un’inquadratura poco meno che banale (quel luogo è uno dei più fotografati d’America).
Mi si avvicinò un giovane, anche lui italiano (siamo davvero ovunque), armato di Nikon e zoom che neanche il telescopio Hubble.
Mi sentì parlare con Claudia, capì che eravamo connazionali, puntò la mia Phase One come un setter punta la fagiana e senza nemmeno salutare o presentarsi chiese a bruciapelo: “Cos’è quella?”
“Una macchina fotografica” risposi, con inutile freddezza.
“Ma è una Arsemplat?”
“Una che?”
“Una Asemplam, Blassembam… quella della Svezia!”
“No, non è una Hasselblad” ribattei calcando volutamente sulla pronuncia corretta, “è una Phase One”.
“Ah, Feisciuàn, mai sentita. Ma è cinese? No, forse italiana?”
“È danese” (come diavolo fa una macchina fotografica a essere italiana? Non ne facciamo più dai tempi della Ferrania!).
“Ah, ma è fuffréim?”
No, davvero, adesso basta, mi scappava da ridere e non potevo offenderlo sghignazzandogli in faccia.
“Sì, sì, è full-frame” mentii con aria distratta, sperando che capisse e si allontanasse.
Ma l’infame insisteva, chiedendomi come mai lui – proprio lui! – non l’avesse mai sentita nominare.
La tentazione di fracassargli sul cranio il ventotto millimetri era forte, l’aggeggio pesa quasi un chilo e qualche danno l’avrebbe fatto, ma non l’avevo ancora assicurato e pertanto rinunciai all’idea.
Mi salvò Claudia, chiamandomi per mostrarmi il sole che faceva capolino attraverso un foro nella parete di roccia.
Le sono grato non solo per avermi suggerito un’inquadratura interessante, ma soprattutto per avermi liberato da una situazione potenzialmente esplosiva...

C’è uno stratagemma che non ho ancora sperimentato: rispondere alle domande in una lingua che sicuramente nessuno conosce.
La prossima estate vado alle Vanuatu per imparare l’araki.
È una lingua parlata da otto persone soltanto: sarà improbabile incontrarne una nei posti dove abitualmente lavoro.

Alla prossima.

Gallery

Durante un workshop con apparecchi a corpi mobili, nel lontano 2005 (fotograficamente parlando, preistoria). Sulle rive del Lago di Garda. Nervi (Genova). La scogliera dove volevamo fare… il parcheggio. Capitello scolpito nel chiostro della collegiata di S. Orso (Aosta). Lungo il Ru Cortod (Val d’Ayas, gruppo del Monte Rosa). Un affresco nella Villa Tesoriera (Torino). Immagine “classica” del Double Arch (Utah, Stati Uniti).