Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

MAGGIO 2019

Il vulcano Eyjafjöll

Se c’è una cosa che mi manda in bestia è l’epidemia di dislessia ormai endemica tra i giornalisti dei tiggì nazionali.
Di fronte a un qualunque nome straniero si bloccano, si arrabattano, arrancano.
E fosse solo straniero!
Per restare nella mia regione, la Venarìa Reale (patrimonio dell’umanità, quindi un minimo di notorietà ce la dovrebbe avere) diventa “venària”, la cittadina di Druento diventa “droint”, non si capisce in base a quale contorto procedimento fonetico.

Se poi andiamo oltre confine, allora si rasenta il delirio: Massimo Giletti, presentando una puntata del suo programma “Non è l’Arena”, annunciò (gennaio 2019) che si sarebbe parlato dei disordini in Francia e dei “gilet jeunes”.
Peccato che sbagliasse pronuncia, perché “gilet jeunes” significa “panciotti giovani”, mentre la grafia (e la pronuncia) corretta è “gilet jaunes” (au = o), cioè “gialli”.

Giletti non è il solo a entrare in confusione con le vocali.
Gran parte dei giornalisti o conduttori televisivi nati nel centro-sud non è in grado di pronunciare la “u” francese (fonema invece presente nelle parlate regionali del nord), e la trasforma in un patetico “iù”.
La causa non va cercata in una inesistente predisposizione genetica: conosco studenti provenienti da regioni come Calabria e Sicilia che parlano un francese perfetto, così come la mia insegnante di francese al liceo, che era “romana de Roma”, e si sentiva, ma solo quando parlava italiano.
Non si tratta dunque di impossibilità congenita, ma di pigrizia acquisita.

Nel 2010, in Islanda, eruttò il vulcano Eyjafjöll.
Okay, non è facile da pronunciare, ma un giornalista serio, nel preparare il suo servizio, guarda un attimo su Internet e si informa sulla pronuncia corretta (https://it.forvo.com/word/eyjafjöll).
Se non è gravemente cerebroleso, la prova due o tre volte e poi la sa dire perché – suvvia – il nostro apparato fonetico è estremamente duttile e malleabile, perfettamente in grado di imparare e riprodurre fonemi mai sentiti prima.
Se non lo si fa, è solo per una colpevole pigrizia mentale.
Invece che cosa fecero gli eroici dicitori dei telegiornali nazionali?
Etichettarono il vulcano islandese come “dal nome impronunciabile”.
E vai che vai bene, tanto alla gente che gliene frega di sapere come si chiama un vulcano in capo al mondo?

Che cosa c’entra questo con la fotografia?
C’entra eccome, perché la stessa pigrizia mentale, la stessa paura di imparare cose nuove, lo stesso rifiuto ad aprire la finestra per guardare oltre i limiti del proprio angusto appartamento coinvolge anche molti fotografi, e – quel che è peggio – molte delle persone che dovrebbero diffondere e divulgare la cultura della fotografia.
Regnano l’approssimazione e il pressapochismo, manca la volontà di approfondire, di cercare, di indagare le cause dei fenomeni.
Si copia-e-incolla tutto, si ripetono acriticamente nozioni imparaticce, senza controllarne la validità.
Ma controllare le fonti, approfondire, superare i luoghi comuni, pensare differente, trasmettere idee nuove e originali è l’unica strada che rende davvero competitivi e capaci di adeguarsi al mondo che cambia.
L’alternativa non è rimanere indietro.
L’alternativa è l’estinzione.

Alla prossima.