Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

GENNAIO 2018

Nascita di una fotografia: pranzo invernale nella kota

Quando i sami (che noi chiamiamo lapponi) praticavano il nomadismo, seguendo le migrazioni stagionali delle renne, utilizzavano diversi tipi di tende e capanne, principalmente la kota (o goahti), e il lavvu.
Si tratta di abitazioni non permanenti e variamente trasportabili: il lavvu, ad esempio, è una tenda conica simile al teepee dei nativi americani (ma più bassa e larga, per resistere meglio al vento).
Queste abitazioni sono realizzate con diversi materiali: pelli di animali, corteccia, torba, rami; ma hanno sempre una struttura portante in legno.
Le diverse denominazioni dipendono sia dalle caratteristiche costruttive e dai materiali impiegati, sia dalle lingue usate per denotarle.
Come è noto, i sami parlano una pluralità di lingue (tutte appartenenti al gruppo ugro-finnico) estremamente differenziate e frammentate: alcune lingue sono parlate da meno di venti persone; il sami di Ter (Russia) è parlato da due persone soltanto, ed è pertanto prossimo all’estinzione.
Oggi i sami, pur mantenendo una forte identità culturale, hanno abbandonato il nomadismo e vivono in villaggi; allevano ancora le renne, che rappresentano per loro un’importante risorsa economica, ma raggiungono gli animali al pascolo con i fuoristrada in estate e con le motoslitte d’inverno.
Mi trovavo nella taiga tra Ivalo e Saariselkä, nella Lapponia finlandese, trecento chilometri a nord del Circolo Polare.
Avevo dedicato quella gelida mattina di fine novembre a una corsa con i cani da slitta.
Con me, oltre alla famiglia, c’erano i pochi turisti che avevano avuto il coraggio di uscire dalle calde e confortevoli camere dei loro hotel.
Terminata la corsa, alcuni di noi sono stati ospitati in una tipica kota, una capanna di tronchi a pianta circolare ricoperta da un tetto di torba, invisibile a causa della neve che lo ricopriva.
Tipicamente, il centro della kota è occupato da un grande focolare, dove su un fuoco di legna si cuoce il cibo e si scaldano le bevande.
Non esiste canna fumaria: il fumo trova da solo la sua strada verso l’alto ed esce da un’apertura circolare al centro del tetto.
Lungo le pareti sono disposte delle semplici panche, coperte da pelli di renna, e dei tavoli, che formano un cerchio intorno al focolare.
Dopo averci fatto accomodare sulle panche, piacevolmente irradiate dal tepore del focolare, gli organizzatori ci hanno servito tè e caffè caldi, insieme a scodelle di un gustoso minestrone preparato con ortaggi misti e insaporito con bocconcini di carne di renna.
L’atmosfera era intima e calda, e nonostante il fatto che i presenti non si conoscessero, si instaurò subito un clima di solidarietà e di simpatia, ma fatto di sorrisi, più che di parole, perché c’era gente di vari paesi e ben pochi parlavano inglese.
Volevo fissare in qualche modo quel momento. Di fronte a me c’era il fuoco acceso, e sulla destra un papà sami con i suoi due bambini, perfettamente a loro agio in quella situazione, per loro non certo inconsueta.
La luce all’interno della kota era debolissima: le uniche fonti luminose erano il fuoco acceso e il foro nel soffitto, da cui filtrava il livido lucore del mattino artico: due luci distantissime fra loro in termini di temperatura cromatica.
Usare il flash sarebbe stata l’unica soluzione per avere una fotografia nitida e cromaticamente bilanciata, ma avrebbe completamente snaturato l’atmosfera del luogo e del momento.
Per cui ho appoggiato la reflex sul tavolo, ho messo a fuoco i bicchieri posati di fronte ai personaggi e ho scattato.
Tempo lungo e tutto mosso, ovviamente, tranne i bicchieri, ma l’immagine riesce ugualmente a raccontare quello che avevo in mente.

Alla prossima.

Gallery