Michele Vacchiano Cultural Photography

Il "tip" del mese

Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere piů divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo.

OTTOBRE 2014

Fisiopatologia del kitsch fotografico

La parola tedesca kitsch denota originariamente “le buone cose di pessimo gusto” di cui parla Guido Gozzano nella sua celebre poesia L’amica di nonna Speranza.

Ma come si definisce il “cattivo gusto”?

Possiamo – almeno inizialmente – definire come “oggetto di cattivo gusto” tutto ciò che è privo di elementi di creatività, che è frutto di imitazione (spesso svenevole, sentimentale o patetica), che fa appello ai sentimenti più semplici e che non permette alcun tipo di interpretazione, essendo il suo significato banalmente ovvio e scontato. Davanti al cagnolino di porcellana, o all’ex-voto in cui un angelo custode sovrasta un bambino che sta cadendo dal balcone, nulla possiamo dire, pensare o interpretare: l’oggetto è concluso in se stesso e nella banalità del suo significato.

Un passo in più – riferito in particolare all’arredamento e al design – può essere fatto definendo kitsch ogni oggetto la cui struttura appaia slegata dalla funzione. Esempio: il confessionale trafugato a una chiesa e trasformato in mobile-bar. E se non credete che possa esistere scrivetemi che vi do l’indirizzo.

La produzione in serie che caratterizza l’era del consumismo ha improntato di sé anche la produzione e la fruizione dei prodotti culturali, dalla musica alla letteratura, dalla pittura alla fotografia. Come già aveva acutamente profetizzato Clement Greenberg (Avant-garde and kitsch, 1939), la ricerca del consenso del consumatore da parte delle aziende (allo scopo di incrementare le vendite) porta la produzione a uniformarsi verso il basso, cioè verso tutto ciò che è popolare, commerciale, semplicemente illustrativo.

“Illustrativo” significa che è facile da capire, che non richiede sforzi di interpretazione: nel momento in cui lo vedete, leggete o ascoltate vi ha già detto tutto quello che aveva da dire.

Oggi la maggior parte dei consumatori di musica non è in grado di distinguere il lavoro di un vero musicista dalla produzione commerciale, così come il lettore medio (ammesso che legga!) non è in grado di distinguere la buona letteratura dai romanzi scritti in serie, caratterizzati da un lessico povero e banale ma che vendono centinaia di migliaia di copie proprio per la loro facilità di lettura, e soprattutto per la loro vicinanza culturale al mondo dei propri fruitori, sempre più livellato verso il basso.

Fabio Volo, tanto per citarne uno, ha venduto 28.000 copie di un suo libro in una settimana, non perché abbia scritto un capolavoro della letteratura, ma semplicemente per la sovraesposizione mediatica che le televisioni e i rotocalchi italiani (mediocri parodie dell’informazione) hanno dedicato a uno che vede, pensa e sogna come l’italiano medio, che all’italiano medio si rivolge e che come l’italiano medio parla e scrive.

L’opera kitsch, come i romanzi di Fabio Volo e molti altri che detengono i primi posti nelle classifiche delle riviste femminili (ricordate il “fenomeno” Melissa Panarello, l’adolescente siciliana che nel 2003 vendette due milioni di copie di un suo romanzetto porno-autobiografico e che recentemente si è riciclata come astrologa, opinionista e gettonata collaboratrice di rotocalchi e tivù?), è facilmente fruibile perché è immediatamente comprensibile, non ha significati se non quelli che si vedono nell’immediato ed anzi sfugge a qualsiasi tentativo di approfondimento. Non esistono possibilità di interpretazione o ambiguità, perché il messaggio contiene già in sé la sua interpretazione.

In fotografia, il kitsch si evidenzia come ripetitività degli stilemi e come imitazione – slegata dal contesto – dei linguaggi narrativi utilizzati dai maestri, o semplicemente da altri fotografi. In pratica, come artificio tecnico o stilistico che appare fine a se stesso, slegato dal contesto e dalla funzione.

Il flou alla David Hamilton o il bianco e nero alla Ansel Adams hanno un senso solo quando sono inseriti nei loro contesti e sono funzionali al messaggio che intendono trasmettere. Usati in contesti differenti perdono la loro efficacia espressiva e diventano banalissimi trucchi.

Analogamente, l’uso dei filtri grigi e i lunghi tempi di otturazione capaci di trasformare le onde del mare o l’acqua di un torrente in una nebbia evanescente, o in una marmellatosa pappa fluida, possono avere un senso (ammesso che l’abbiano) quando davvero servono a raccontare il paesaggio, il luogo o l’atmosfera. In tutti gli altri casi (la maggioranza) si manifestano come un inutile artificio tecnico il cui significato è solo uno: guardate che bell’artificio tecnico.

Lo stesso vale per gli improbabili cieli colorati che negli anni Ottanta si ottenevano con i filtri “creativi” Cokin e che oggi si creano con Photoshop. Qui il kitsch sfocia nel ridicolo quando un cielo color tabacco non si riflette nell’acqua, che resta perfettamente azzurra!

Eppure sono queste le fotografie che spopolano sui forum e sui social network, quelle che ottengono la maggioranza dei consensi da parte del fotoamatore medio, quasi che la creatività consistesse nel saper adoperare un filtro digitale e non nel saper interpretare la realtà restituendola trasfigurata dalla sensibilità del fotografo, che di sicuro sa usare gli strumenti di postproduzione, ma li usa per mettere in evidenza quegli elementi forti della composizione che lo avevano spinto a scattare la fotografia, e non certo per sottolineare la propria perizia di smanettatore dilettante.

L’uso dell’elaborazione digitale, dal canto suo, ha moltiplicato in modo esponenziale le possibilità del kitsch, con effetti devastanti soprattutto sulla fotografia di cerimonia, genere praticato non solo da seri professionisti di provata esperienza (che di solito non cedono alla tentazione dell’effettaccio gratuito), ma anche dal “fotografo sotto casa” (spesso più negoziante che fotografo), o peggio da amici o parenti degli sposi che non vedono l’ora di far sapere a tutti quanto sono bravi con Photoshop.

I risultati sono sotto gli occhi di chiunque, passeggiando, capiti davanti alla vetrina del “fotografo sotto casa”: la sposa che sbuca da una gigantesca rosa, manco fosse un insetto impollinatore; lo sposo che la stringe a sé entro un nugolo di farfalle svolazzanti (il che fa anche un po’ schifo, a pensarci bene); i due che sguazzano fra le nubi equipaggiati con ali d’angelo…

Ho deciso di non pubblicare in questa pagina fotografie di esempio, neppure di libera fruizione, perché non voglio apparire così presuntuoso da ergermi a giudice del lavoro di altri fotografi. Ma sono certo che i miei lettori, esperti utilizzatori della rete, non faranno fatica a trovare in giro di che divertirsi. Ad esempio, provate a digitare “kitsch wedding” o “kitsch photography” su Google Images e poi ditemi se non ho ragione.

Alla prossima.