Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

LUGLIO-AGOSTO 2021

Nascita di una fotografia

East Mitten Butte e Merrick Butte (Monument Valley, Arizona)

Tsé Biiʼ Ndzisgaii, “Valle delle rocce”.
La Monument Valley è un luogo sacro.
Non solo per i Navajo, anche per me.
È come entrare in una sterminata cattedrale a cielo aperto.
Le buttes, le guglie di arenaria che innumerevoli film western hanno fatto conoscere al mondo, sono pilastri eretti a sostenere il cielo.
Come un pellegrinaggio, le centotrenta miglia di nulla che avevo dovuto percorrere per arrivare qui da Page, incontrando sulla mia strada solo il villaggio di Kayenta, nel cuore della Navajo Nation, avevano preparato il mio spirito all’incontro con questo luogo straordinario.
E poi il silenzio.
Non canti di uccelli, né ronzare di insetti, e nemmeno il vento, che in altri luoghi (come nella regione del Grand Canyon) tiene un po’ di compagnia con il suo canto modulato.
Anche la vegetazione era diversa, per me nuova e aliena.
Assenti i cespugli di sagebrush (Artemisia tridentata) che inebriano i deserti dello Utah con quel loro profumo stordente, quasi ipnotico: al loro posto, arbusti radi e rinsecchiti e qualche ginepro contorto avidamente abbarbicato al terreno arido nel tentativo di strapparvi un minimo di vita.
Assenti anche i cactus monumentali (Carnegiea gigantea) che vediamo in certi film di bassa lega: i registi li mettono (ovviamente di plastica) per dare un po’di couleur locale, ma loro vivono cinquecento miglia più a sud, nel deserto di Sonora.

Non ero lontano dal parcheggio e dalle strutture ricettive per turisti gestite dai nativi,
e nemmeno dalla Valley Drive percorsa dalle auto dei visitatori, ma la solitudine si percepiva come un dato concreto, si respirava come un gas denso e inebriante.
Mezz’ora prima avevo fermato il fuoristrada al margine di una piazzuola sterrata ed ero sceso per fotografare il sole alle spalle delle Three Sisters.
Ma la grandiosità del paesaggio mi aveva bloccato: in silenzio, immobile, avevo rinunciato a fotografare ed ero rimasto a contemplare l’immensità, immaginando appena che cosa potesse esserci oltre quell’orizzonte uguale e sconfinato.
Anche Claudia era scesa dall’auto, in silenzio, e aveva rivolto lo sguardo nella mia stessa direzione.
“Restiamo qui per sempre” avevo sussurrato, come se il suono della mia voce potesse disturbare gli spiriti degli antenati che sicuramente si aggirano tra quei monoliti rossastri, o forse gli dèi che abitano sulle cime.
“D’accordo” aveva bisbigliato lei di rimando.

Era questo il “sublime” di cui parlavano Burke, Kant e Schopenhauer?
Quell’insieme inquietante di ammirazione e timore, quando la natura si manifesta grandiosa e imponente, suscitando trepidazione e sgomento e sovrastando l’osservatore che percepisce tutta la propria finitezza, come nei dipinti di Friedrich o di Turner?
Per questo amo i deserti in tutte le loro declinazioni, dalla gelida tundra a questi luoghi aridi e assolati; ma anche i ghiacciai d’alta quota: solitudini di struggente bellezza, capaci di innamorare e di intimidire, di commuovere ma anche di uccidere (come mi avrebbe ricordato lo scorpione scivolato nella doccia la mattina successiva, dopo avere trascorso tutta la notte al calduccio tra i miei capelli).

Avevo uno zaino pesante.
La Phase One con il normale da 80 millimetri, il supergrandangolo da 28 e il 150; due batterie di ricambio per il dorso e un secondo caricatore di Duracell fresche per il corpo macchina.
Un esposimetro esterno per luce incidente, un numero imprecisato di schede CF e un piccolo, immancabile flash completavano il corredo.
Nella parte superiore dello zaino, una Sony RX1 che uso come “taccuino per gli appunti”, una felpa pesante (dopo il tramonto il deserto si trasforma in una landa gelida) e una bottiglia d’acqua che il sole aveva reso tiepida e sgradevole.

Adesso ero in piedi su un’altura in vista di due delle formazioni più famose.
Volevo fotografarle ma la luce non mi convinceva, non era quella giusta.
Decisi di aspettare che il sole apparisse più inclinato sull’orizzonte.
Per ingannare il tempo, mi accesi un toscanello e iniziai a giocherellare con l’esposimetro, un piccolo Gossen Sixtino che mi segue fedelmente da quarant’anni (ho di meglio, è vero, ma alla fine è sempre lui che mi accompagna nei miei viaggi).
Nel frattempo il sole, nel suo incedere pigro, si era nascosto dietro una nuvola per una manciata di minuti, poi d’improvviso si era svelato, inclinato sull’orizzonte quanto bastava per accendere i colori dell’arenaria, regalandomi una vasta zona d’ombra in primo piano: la cornice naturale di uno spettacolo grandioso.
Il cielo gonfio di nubi stratificate si stava colorando di azzurro carico per l’avvicinarsi della notte: un paesaggio con due soli colori, fra loro complementari.
Era quello il momento.
Mi prefiguravo con gli occhi della mente il risultato finale, già studiando il trattamento più adeguato a ottenerlo.
Scattai una sola fotografia, compensata a un terzo di stop per poter leggere le ombre.
Lo so, sul web ce ne sono migliaia, e forse più, di fotografie come questa, ma in quel momento non potevo rinunciare a trasformare in luce e colore la consapevolezza di trovarmi in un luogo davvero speciale, intriso di spiritualità forse ancor più delle nostre pompose cattedrali.

Alla prossima.