Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere più divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo

Gennaio 2017

La fotografia come servizio (mah!)

Ci sono molti motivi per scattare una fotografia: per mestiere, per passione, per fare arte (quale che sia il significato che diamo a questa parola), per documentare e ricordare fatti e avvenimenti.

È su quest’ultimo aspetto che vorrei soffermarmi.

Il fotoreporter documenta, ma spesso la sua documentazione è arricchita da elementi emozionali che rendono la sua fotografia creativa, quindi più simile all’arte.
Lo stesso fa il fotografo d’ambiente, quando non si limita a testimoniare l’esistenza di un paesaggio, di un’architettura o di un animale, ma sa tradurre in immagine le emozioni che quei soggetti hanno suscitato in lui.
Al contrario, la fotografia scattata dal perito dell’assicurazione al parafango ammaccato della nostra auto non ha alcuna pretesa se non quella di documentare, nel modo più chiaro e inequivocabile, la natura e l’entità del danno.

Paragonabile al lavoro del perito è il selfie che due amiche si scattano a Riva degli Schiavoni, con le gondole alle spalle e il campanile di San Giorgio sullo sfondo: a loro non interessa che in quel momento dietro di loro stia passando un tizio che non c’entra nulla con l’inquadratura, o che il campanile appaia più pendente della Torre di Pisa; lo scopo è ricordare un momento di vacanza e quello fanno, senza preoccupazione alcuna per la tecnica e per l’estetica della fotografia.

A questo tipo di utenti si rivolge Relonch, proponendo la sua fotocamera “ad abbonamento”.
In pratica, per 99 dollari al mese, Relonch fornisce al cliente una macchina fotografica.
Quando il cliente scatta una fotografia, una connessione 4G integrata nell’apparecchio la trasferisce a un server dedicato, usando un algoritmo che seleziona ed elabora automaticamente le migliori (quelle che il software ritiene migliori).
Le immagini, modificate e migliorate, sono rispedite allo smartphone o al tablet del cliente il giorno successivo, tramite un’apposita applicazione.
A questo si aggiunge un album fotografico che raccoglie i migliori scatti del mese.

Sembra interessante, ma analizziamo attentamente la cosa per capire se ha senso.

Innanzitutto, l’idea è innovativa ma non proprio nuova.

La prima pagina del brevetto di George Eastman n. 388850

Nel 1888, George Eastman lanciò sul mercato la celeberrima Kodak, con lo slogan “Voi premete il bottone, noi facciamo il resto”.
L’apparecchio (che costava 25 dollari) era una scatola a forma di parallelepipedo, equipaggiata con un obiettivo semplicissimo (un menisco convergente da 57mm f/9), un pulsante di scatto e un bottone per l’avanzamento della pellicola (nella figura a sinistra, la prima pagina del brevetto di George Eastman n. 388850, relativo alla sua box camera, 4 settembre 1888. Fonte: Wikimedia Commons).
La scatola era riempita con un rotolo di carta sensibile (più tardi con pellicola in celluloide), che permetteva la realizzazione di cento negativi, curiosamente circolari (era sfruttato l’intero cerchio di copertura dell’ottica).
Una volta effettuati i cento scatti, bisognava spedire l’apparecchio alla casa madre, che per soli dieci dollari provvedeva al trattamento dei negativi, per poi restituire al cliente le stampe e la macchina, caricata con un rotolo vergine.

Una curiosità: da dove deriva il nome Kodak?
C’è chi pensa che George Eastman si rifacesse al Kodiak, o orso dell'Alaska (Ursus arctos middendorffi), diffuso appunto sull’isola di Kodiak, e che ne avesse semplificato il nome per renderlo universalmente pronunciabile.
In realtà, a Eastman piaceva la lettera K, che riteneva “una lettera forte e incisiva”.
Individuò il nome Kodak insieme alla madre, grazie a un gioco di anagrammi, alla ricerca di una parola con caratteristiche ben definite: “Deve essere corta, deve essere impossibile sbagliarne la pronuncia, non deve somigliare o essere associata a niente che non sia Kodak”, come scrisse più tardi.
L’idea geniale di George Eastman contribuì a trasformare la fotografia in un fenomeno di massa.

Relonch 291

La proposta di Relonch non ne è che la traduzione in termini tecnologicamente adeguati alla nostra epoca.
Anche la macchina di Relonch è molto semplice.
La piattaforma di partenza è una Samsung della serie NX (non è precisato il modello), avvolta in una copertura morbida disponibile in diversi colori, che ricorda una elegante custodia di pelle, cucita con punti a vista (figura a sinistra, tratta dal sito dell’azienda).
Il risultato è la Relonch 291, equipaggiata (come il box Kodak) con il solo obiettivo (un 20mm f/2 a focale fissa) e il pulsante di scatto.
Il sensore è di formato APS-C.
Non c’è display LCD, quindi non c’è modo di rivedere la foto; non c’è slot per scheda di memoria, perché gli scatti vengono immediatamente spediti a un server remoto; non c’è flash.
Non è possibile scegliere le foto da sviluppare: è il software che decide quali sono venute bene e quali no.
L’azienda prevede di rendere la 291 disponibile a livello globale entro il 2018.
Fino a quel momento, il servizio sarà in versione beta testing, per calibrare al meglio gli algoritmi di trattamento.
Oggi è possibile provare la 291 soltanto nello showroom di Palo Alto, California.

Ha senso un’operazione del genere?
È evidente che Relonch si rivolge a un pubblico di dilettanti assoluti, quelli – appunto – che si fanno il selfie davanti a qualunque monumento o luogo turistico per far vedere ai colleghi che ci sono stati.
Questo tipo di cliente non vuole saperne di regolazioni, impostazioni e postproduzione.
Però questo tipo di cliente possiede uno smartphone, grazie al quale può vedere subito le immagini scattate (e non il giorno dopo), può decidere se usare o non usare il flash, può scegliere autonomamente quali foto tenere e quali buttare, può persino pacioccare con algoritmi di elaborazione più o meno sofisticati, al fine di ottenere effetti di bianco e nero, viraggi, posterizzazioni e altre idiozie che fanno sentire tanto “creativi” e che spopolano su Instagram.
Perché questo tipo di utente dovrebbe rinunciare a tutto questo e spendere 99 dollari al mese per avere una cosa che fa di meno?

Se invece pensiamo a un cliente più evoluto, ad esempio al principiante che vuole iniziare con qualcosa di semplice ma ha l’intenzione di evolversi, anche in questo caso l’operazione è fallimentare.
Prima di tutto perché con un apparecchio del genere non si impara a fotografare, poi perché 99 dollari al mese (circa 95 euro alla fine del 2016) sono una cifra che permette di acquistare (pagando a rate in 12 mesi a tasso zero) una macchina entry-level che può essere usata in modalità base ma che permette – lei sì – di imparare a gestire tempi, diaframmi, sensibilità e tutto ciò che concorre alla crescita (almeno tecnica) del fotoamatore.

Non faccio mai previsioni, perché il mercato è imprevedibile e chi fa pronostici viene regolarmente smentito, ma temo che la 291 rischi di rimanere presso lo Showroom di palo Alto, racchiusa nella vetrina delle idee bislacche.

Alla prossima.