Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

GIUGNO 2018

Digitale effimero o duraturo?

Vinton Cerf, uno dei padri di Internet nonché vicepresidente di Google, intervenendo a un meeting annuale della American Association for the Advancement of Science, ha affermato: “Stiamo gettando tutti i nostri dati in quello che potrebbe diventare un buco nero dell’informazione”.
E ha aggiunto: “Quando si pensa alla quantità di documenti […] immagazzinati in forma digitale […] è chiaro che potremmo perdere una grossa fetta della nostra storia. […] dobbiamo assicurarci che gli oggetti digitali che creiamo oggi siano ancora accessibili nel futuro”.
Il grido di allarme coinvolge anche i fotografi: “Se avete foto a cui tenete, stampatele”.
Le parole di Cerf aprono due problemi che cerchiamo di affrontare in questo articolo.

Il primo è la fruibilità futura dei documenti digitali: fra mille anni o più, i nostri bit saranno ancora leggibili?
Il secondo (conseguente al primo) è assicurarsi un tipo di conservazione che garantisca ai dati digitali la necessaria durata nel tempo.

Cerf è consapevole – lui che se ne intende – della precarietà delle informazioni registrate su supporti elettronici.
Se ci pensiamo bene è vero: il file digitale (in particolare, per quanto ci riguarda, la fotografia digitale) non ha nulla di materiale: è semplicemente un insieme di istruzioni che dice a un sistema operativo che cosa visualizzare sullo schermo di un PC, di un tablet o di un telefono portatile.

Sono molti gli esperti che – come Cerf – mettono in guardia i lettori contro la pervasività della fotografia digitale, così immediata e facilmente realizzabile da essersi moltiplicata in modo esponenziale, finendo per trasformarsi in un rito collettivo rapidamente consumato e ancor più rapidamente dimenticato.
Secondo loro, la maggior parte di queste fotografie, compulsivamente e orgiasticamente prodotte e riprodotte, andrà perduta, mentre, al contrario, le fotografie del nonno saranno ancora lì, stampate in bianco e nero e apparentemente immutabili, a restituirci personaggi e momenti di vita che neppure riconosciamo, ma che da cinquanta, ottanta o cento anni ci sorridono, e ancora lo faranno, algidi e assenti, da un rettangolo di carta dai bordi dentellati.
Inoltre – questo è sacrosanto – una fotografia stampata non necessita di strumenti tecnologici per essere ammirata: basta prenderla in mano e guardarla; mentre una fotografia digitale, fino a quando non viene stampata, può essere fruita soltanto facendo ricorso a un computer (o comunque a un dispositivo elettronico), e a un programma idoneo.
Siamo sicuri che in un più o meno lontano futuro esisteranno ancora strumenti e software in grado di visualizzare le nostre immagini digitali?
E soprattutto, saranno gratuiti, oppure saranno di così difficile reperibilità che i nostri nipoti dovranno pagare (cosa che difficilmente faranno) per vedere le foto di famiglia?
Penso a formati ormai desueti, come il Betamax o il Video 2000 per le videocassette (ma anche il VHS, che pure era il più diffuso): in realtà è ancora possibile utilizzare e convertire quei formati, ma lo si può fare solo ricorrendo a laboratori specializzati, che ovviamente si fanno pagare per il servizio.
Nel mio garage c’è una scatola piena di film Super-8 girati da mio padre: dovrei poter usare almeno una moviola (peccato aver venduto la mia vent’anni fa) per visionarli tutti e scegliere quelli che vale la pena convertire, ma non solo non riesco a trovare il tempo per farlo, ma dovrei anche pagare per il noleggio di una moviola Super-8.
Cosa che non faccio, con il serio rischio che quei filmati vadano definitivamente perduti.

Allo stesso modo, c’è davvero il rischio che i posteri possano non conoscere nulla della nostra civiltà, perché le fotografie che abbiamo scattato scompariranno insieme ai nostri smartphone e ai nostri computer; o diventeranno illeggibili perché non esisteranno più dispositivi capaci di leggere i nostri formati?

Sinceramente, questa preoccupazione mi sembra esagerata, e questo per due motivi.

Il primo è che la nostra civiltà non è diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta: anche se ci dispiace, dobbiamo accettare il fatto che molti dei documenti che noi produciamo andranno perduti, così come è sempre accaduto nel corso della storia.
Pensiamo alla cultura greca classica: se si eccettua la pittura vascolare (cioè quella realizzata per decorare vasi e anfore), la pittura greca è per noi totalmente scomparsa, perché realizzata su materiali deperibili (come il legno).
Noi studiamo la letteratura greca, ma quello che conosciamo non è che la minima parte di tutto ciò che è stato prodotto, e che ci è pervenuto grazie alle copie romane e all’attenzione degli studiosi arabi.
Inoltre, non dimentichiamo che le poesie di Saffo, Anacreonte o Pindaro erano in realtà testi di canzoni, la cui musica è per noi perduta: è come se in futuro Baglioni, Guccini o Jovanotti venissero considerati poeti, semplicemente perché delle loro canzoni sono rimasti i testi ma si è perduta la musica (cosa che potrebbe davvero accadere, dato che un testo stampato su “TV Sorrisi e Canzoni” dura più di un CD).
Nonostante questo, noi siamo ugualmente in grado di ricostruire la cultura, l’ambiente di vita e il modo di pensare di un ateniese del quinto secolo, e possiamo persino ricostruire quello che mangiava il filosofo Socrate quando – dopo una giornata trascorsa nell’agorà – tornava a casa dalla bisbetica e irascibile moglie Santippe.

Nella mia esperienza di bibliotecario e formatore di operatori culturali, ho spesso affrontato il problema della conservazione delle pubblicazioni cosiddette “minori”, che in realtà minori non sono, dato che permettono agli storici di ricostruire nei minimi particolari la struttura sociale, le credenze, i rapporti interpersonali all’interno di una civiltà.
Le biblioteche conservano con cura (spesso su supporti informatici) le principali testate giornalistiche, e sicuramente “La Stampa”, “La Repubblica” e “Il Sole 24 Ore” (per non citare che esempi italiani) perverranno integri alle generazioni future.
Ma che ne sarà di giornali come “L’Eco del Chisone” o “Il Corriere di Caserta”?
Eppure sono queste (più dei grandi network nazionali) le testimonianze dirette della vita di un territorio.
Così è e così sarà sempre: di ogni civiltà non restano che poche testimonianze, pochi segni che la scienza e la storia devono ricomporre per creare un panorama quanto più possibile completo e verosimile (se non veritiero) di quella cultura.
La nostra epoca produce una tale ridondanza di informazioni e di dati che neppure la perdita della maggior parte di essi potrà rappresentare un problema per gli studiosi di domani.
Se anche il 99% dei novantatré milioni di selfie postati ogni mese sui social andasse perduto, ne resterebbero abbastanza per dare ai posteri un quadro esaustivo del nostro modo di vivere (e forse non sarebbe un quadro del tutto edificante).

Il secondo motivo sta nel fatto che i formati attuali – per quanto imperfetti e migliorabili – supportano ormai una tale quantità di dati e di informazioni che ben difficilmente potranno essere sostituiti e resi totalmente obsoleti da formati incompatibili.
Volete venirmi a raccontare che milioni di miliardi di fotografie scattate in JPEG diventeranno illeggibili perché qualche genio buontempone deciderà che il JPEG è un formato obsoleto e che i nuovi software non saranno in grado di decodificarlo?
Che le migliaia di miliardi di documenti convertiti in PDF (pensiamo ai documenti di archivio, ai quotidiani e ai libri digitalizzati, ai documenti finanziari) scompariranno dalla faccia della terra perché un giorno o l’altro il PDF non esisterà più?
Questo potrebbe accadere soltanto se si verificasse una catastrofe umanitaria di tale portata da azzerare completamente tutti i nostri sistemi di comunicazione, tutti i software e gli hardware capaci di decodificarli.
Insomma, soltanto se ripiombassimo nell’età della pietra per poi ricominciare tutto daccapo.
Ma se mai accadesse qualcosa del genere, avremmo ben altro di cui preoccuparci che non conservare il nostro archivio fotografico!
Ipotizzando un’evoluzione ragionevolmente lineare dell’umanità – pur con alti e bassi – e delle sue conoscenze tecnico-scientifiche, possiamo tranquillamente ammettere che un formato possa diventare obsoleto, ma – in questo caso – si dovrebbero creare dei software in grado di convertire i documenti in un nuovo formato capace di sostituire il vecchio, o di rendere i vecchi documenti compatibili con le nuove versioni.

L’importanza della compatibilità

Chi ha letto con attenzione avrà notato che abbiamo detto “dovrebbero”.
Quello appena delineato, infatti, è un problema reale, sul quale si concentra l’attenzione degli archivisti, degli informatici e dei gestori dell’informazione.
Perché, nella storia, guai del genere sono già successi.

Chi usava sistemi operativi Apple negli anni Novanta aveva a disposizione ClarisWorks, una suite destinata ai computer Apple Macintosh di fascia consumer.
Verso la fine del decennio, la suite abbandonò il marchio Claris per rinascere come AppleWorks, a sua volta sostituito da iWork.
Peccato che l’ultima versione di iWork non sia in grado di aprire i file creati con ClarisWorks e AppleWorks, se non installando ulteriori software e perdendo non poco tempo nel tentare la conversione.
Il problema della compatibilità tra software e della possibilità di leggere i formati obsoleti deve essere affrontato seriamente, se – come si diceva prima – vogliamo rendere disponibili ai nostri discendenti i documenti che produciamo.
A questo proposito, ecco un racconto esemplare.

Il Domesday Book è un documento che il re normanno Guglielmo il Conquistatore fece compilare nel 1086, vent’anni dopo l’invasione dell’Inghilterra, per censire le sue nuove terre a scopo fiscale.
I suoi inviati percorsero tutta l’isola, registrando minuziosamente le proprietà di signori e contadini, “fino all’ultimo maiale”, come scrissero i cronisti di allora.
Ne nacque un’opera imponente: due libri manoscritti su pergamena che “fotografano” con precisione il territorio e la vita nell’Inghilterra dell’undicesimo secolo.
Nel 1983, il governo di sua maestà britannica affidò alla BBC il compito di digitalizzare questo documento: furono creati videodischi contenenti mappe interattive, filmati, descrizioni di luoghi…
Insomma, un gran bel lavoro il quale, ovviamente, fu protetto da copyright.
In altre parole, chi voleva consultare l’edizione elettronica del Domesday Book doveva acquistarlo, oppure pagare i diritti alla BBC.
Peccato che dopo quindici anni questa versione digitale fosse già illeggibile: non esistevano più gli apparecchi e nemmeno i computer in grado di decodificare le informazioni registrate sui videodischi.
Ah, a proposito: l’originale in pergamena è ancora perfettamente leggibile, anche se sono passati quasi mille anni.
La sua consultazione non richiede attrezzature particolari o macchine sofisticate: basta conoscere il latino.
E non bisogna neppure pagare per consultarlo, dato che è conservato in un archivio pubblico e le sue copie a stampa sono reperibili presso le biblioteche (ne esiste anche una versione online, ma ultimamente non sembra funzionare molto bene).
Insomma, paradossalmente sembra che la durata di un documento sia inversamente proporzionale alla complessità della tecnologia usata per produrlo (pensate alle incisioni rupestri della preistoria, ancora perfettamente conservate).

Da tutto questo bisogna trarre un insegnamento.
L’immagine digitale ha bisogno di essere continuamente seguita e “coccolata”.
Per evitare sorprese, bisogna tenere d’occhio i progressi della tecnologia: quando i formati dei nostri file diventano obsoleti, o sono abbandonati dal produttore, occorre convertire i file nei nuovi formati, soprattutto se questi diventano standard di riferimento.
Penso, ad esempio, al formato DNG, nel quale possono essere convertiti tutti i file RAW, senza peraltro subire sensibili cali di qualità.
Insomma, il digitale è – almeno in teoria – eterno, ma bisogna “starci dietro”.
Ricordate il Tamagotchi, quell’animaletto virtuale che andava costantemente nutrito e accudito, altrimenti moriva?
Ok, l’immagine digitale è lo stesso.

E comunque non lamentiamoci, perché anche le diapositive e le stampe a colori (ma perfino i negativi e le stampe in bianco e nero) hanno una loro durata: possiedo immagini digitali che ormai vivono da più tempo di alcune mie diapositive e sicuramente di molte stampe a colori.
Per non parlare di altri materiali, della cui conservazione mi sono occupato per anni: dagherrotipi, stampe all’albumina, lastre al collodio e alla gelatina, pellicole e stampe all’argento, pellicole al nitrato di cellulosa, supporti ottici e magnetici; senza contare la carta, la pergamena, i pellami delle legature, gli inchiostri…
Tutti materiali organici, e per ciò stesso deperibili (come noi, del resto), ed è proprio questa naturale e fisiologica deperibilità ad aver fatto sì che sopravvivesse una minima parte di tutto ciò che i nostri antenati hanno prodotto (se così non fosse, i libri antichi si troverebbero al prezzo delle patate, invece di essere venduti a cifre esorbitanti dai librai antiquari).

Copiare, copiare, copiare

Ma non serve prestare attenzione all’evoluzione dei formati, se poi siamo così malaccorti da fidarci ciecamente dell’infallibilità della nostra tecnologia.
In altre parole, la prima cosa da fare per proteggere i nostri dati è eseguirne periodicamente una copia, o – in termini tecnici – un backup.
Eseguire un backup significa copiare dei dati da un supporto di massa a un altro supporto di massa per ragioni di conservazione e sicurezza.
Il backup è un’operazione troppo spesso trascurata da chi lavora con un computer, perché raramente si pensa che un virus, un guasto meccanico o un evento esterno possano alterare l’integrità dei dati.
Invece, pensiamoci solo un attimo.

Virus: esistono virus informatici che sono in grado di distruggere parte dei dati, o anche di provocare un malfunzionamento definitivo (e talvolta irrecuperabile) dell’unità su cui i dati sono registrati.
Nel 2017, la Kaspersky Lab (azienda specializzata in sicurezza informatica) lanciò l’allarme StoneDrill, un sofisticato malware che si insinua nel processo di memoria del browser utilizzato dall’utente, inganna le barriere di protezione e comincia a cancellare i dati presenti sul disco.
L’ingenuità degli utenti, che spesso non sanno riconoscere un tentativo di phishing (e-mail apparentemente proveniente da una banca o da un’azienda che invita il destinatario a fornire dati riservati, o a cliccare su un link) favorisce la propagazione dei virus.
Alcuni, poi, si diffondono senza che non ci sia neppure bisogno di cliccare su un link: nel 2017, la Polizia Postale italiana ha segnalato un virus che si propaga tramite Messenger, l’applicazione di messaggistica istantanea di Facebook.
In questo caso, basta rispondere al messaggio che si è ricevuto per infettare il proprio PC.
E non è vero – come molti ancora credono – che i virus non possano infettare i sistemi operativi Macintosh.
Il fatto che i virus destinati a Windows siano più diffusi è solo dovuto alla sua maggiore popolarità e diffusione; ma non esiste sistema operativo che non possa essere seriamente danneggiato dai virus informatici, spesso capaci di aggirare anche le difese più sofisticate.

Guasti meccanici: i dischi rigidi possiedono parti in movimento che sono soggette a usura; mentre le unità a stato solido (SSD) hanno anch’esse una scadenza, che dipende dal numero dei cicli di scrittura (anche se questo – di fatto – è un problema più teorico che reale, dato il miglioramento delle prestazioni delle unità di più recente costruzione: i risultati delle prove di laboratorio, molti dei quali pubblicati in rete, sono tali da rassicurare gli utenti a questo riguardo).
A chi ritiene che la rottura meccanica di un disco rigido sia un evento eccezionale, racconterò questo aneddoto.
A poche centinaia di metri da casa mia, nel mio stesso quartiere, abitava un fotografo piuttosto famoso.
Quando ci incontravamo, lui mi prendeva sempre in giro perché io utilizzavo sistemi operativi Windows, mentre lui era da sempre fedele a Macintosh: il Mac – diceva – può rimanere sempre acceso e non si rompe mai.
Bene, qualche anno fa il suo Mac si è rotto e lui ha perso venticinquemila foto, perché non aveva mai fatto un backup dei suoi dati, fidandosi dell’infallibilità del suo sistema.

Eventi esterni: incendio, furto, allagamento, sbalzi di tensione provocati da fulmini, ma anche imperizia dell’utente, che spesso provoca più danni di un’alluvione.
Gli sbalzi di tensione non sono da sottovalutare: vent’anni fa perdetti tutti i dati registrati sull’unico hard disk del mio computer (oltre al sistema operativo) semplicemente perché – durante un temporale – avevo lasciato il computer (spento!) collegato alla rete elettrica (all’epoca non usavo sistemi di protezione adeguati).
Quando tentai di riaccendere la macchina, l’unica cosa che vidi fu una desolante schermata nera, e nessun intervento riuscì a restituirmi quanto avevo perduto.
Dovetti sostituire il disco fisso e il sistema operativo, ma per fortuna riuscii a recuperare i dati, che avevo salvato su DVD (oggi non lo farei mai, ma all’epoca erano ritenuti una soluzione affidabile).

Una volta convinti della necessità di copiare da qualche parte i propri dati, alcuni utenti si limitano a duplicarli su una partizione dello stesso disco rigido, oppure su un secondo disco interno al computer.
Questo è evidentemente un rischio, se si considerano i possibili eventi che abbiamo appena delineato.

Nemmeno i CD e i DVD rappresentano una soluzione sicura.
Il motivo è quello che io chiamo – scherzosamente ma non troppo – “sindrome della caraffa della nonna”.
Quando insegnavo tecniche di conservazione dei materiali agli aspiranti bibliotecari, ricordavo loro la caraffa in plastica con cui le nostre nonne misuravano il latte e la farina.
Da bambini, quella caraffa ci appariva limpida e perfettamente trasparente; ma adesso, passati gli anni, la plastica si è opacizzata, è diventata torbida e a stento si possono leggere i valori sulla scala graduata.
La nonna lavava la caraffa a mano, mentre noi la mettiamo in lavastoviglie, perciò è a questa che diamo la colpa.
In realtà la lavastoviglie non c’entra.
L’opacizzazione della plastica è un fenomeno naturale, che deriva dalla cristallizzazione dei polimeri che la costituiscono.
È un fenomeno legato al tempo, al calore, alle condizioni di conservazione.
I supporti ottici (CD e DVD) sono costituiti da un sottile foglio metallico, sul quale sono praticate le incisioni destinate ad essere “lette” dal raggio laser.
Questo foglio metallico è protetto, superiormente e inferiormente, da strati di policarbonato trasparente.
Essendo un materiale plastico, il policarbonato può essere soggetto a fenomeni di cristallizzazione e conseguente opacizzazione (proprio come la caraffa della nonna) che – a lungo andare – impediscono al raggio laser di leggere le tracce registrate.
Un altro problema è rappresentato dal cosiddetto “bronzing”: lo strato inciso tende a diventare più scuro partendo dai bordi e si rovina, diventando illeggibile.
Il fenomeno, dovuto probabilmente a solfurazione derivante dal contatto con gli inchiostri di custodie ed etichette, è oggi superato, ma potrebbe ripresentarsi in caso di utilizzo di prodotti economici.
In questa sede non approfondiamo altri fenomeni di degradazione (come il “disc rot” e la “disc delamination”) che affliggono i supporti ottici rendendoli inadatti alla conservazione dei dati nel lungo termine.

L’unica soluzione sicura è quella di effettuare il backup dei dati utilizzando unità esterne: non solo singoli dischi rigidi, ma anche NAS (Network Attached Storage) costituiti da più dischi coordinati secondo uno schema RAID (Redundant Array of Inexpensive Disks), che garantisce una migliore gestione della sicurezza dei dati.
Un sistema di conservazione alternativo è rappresentato dal cloud computing, cioè dal salvataggio dei dati su piattaforme online rese disponibili da società di servizi.
In questo modo, l’utente può accedere ai suoi dati da qualunque postazione, semplicemente collegandosi (con username e password) al proprio spazio riservato messogli a disposizione dal fornitore del servizio.
Attenzione: è rischioso affidarsi a questo tipo di servizio come unico spazio di archiviazione dei propri dati.
Dopo il crack della Lehman Brothers (settembre 2008), un’agenzia fotografica finanziariamente collegata alla banca in oggetto chiuse inopinatamente i battenti, rendendo indisponibili i file archiviati a tutti i fotografi che – fidandosi della stabilità della rete – avevano rinunciato all’archiviazione in locale per affidarsi esclusivamente a quella online.
Risultato: migliaia di scatti persi, senza alcuna certezza riguardo alle possibilità e ai tempi di recupero.
Un altro problema riguarda la sicurezza dei dati, che trovandosi archiviati in rete potrebbero risultare più vulnerabili agli attacchi degli hacker, senza contare i problemi hardware che potrebbero interessare i server del fornitore del servizio.
In ultimo, non dimentichiamo che il cloud computing ci costringe a condividere con altri utenti gli stessi server: se un virus informatico entrasse nel server per l’imperizia (o il dolo) di un utente, potrebbe intaccare di conseguenza tutti gli altri utenti che a quel server sono collegati.

La mia soluzione

Come affermava il mio capo e maestro quando muovevo i primi passi lungo la strada della biblioteconomia, se vuoi essere sicuro che i pantaloni non ti caschino non fidarti della sola cintura, ma aggiungici anche le bretelle.
Bene, per avere “le bretelle e la cintura” io salvo i miei dati (soprattutto le fotografie) su tre dispositivi diversi: i dischi fissi del computer (uno dei quali riservato al solo archivio fotografico), due dischi esterni USB (il primo riservato all’archivio fotografico, il secondo a tutti gli altri documenti), un NAS in configurazione RAID 5 collegato in rete locale.
Ogni volta che salvo o modifico un file sull’unità principale, lo stesso file viene salvato in contemporanea sulle unità secondarie.
A questi si aggiunge una quarta unità (disco USB da 3,5 pollici) che aggiorno due volte all’anno e che conservo nella casa in montagna: in caso di incendio o devastazione vandalica della casa in città, il lavoro di una vita sarà comunque salvo, anche se non perfettamente aggiornato.
Esagero? Forse, ma almeno i pantaloni stanno su.

Alla prossima.

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