Michele Vacchiano Cultural Photography

Il "tip" del mese

Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere più divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo

MAGGIO 2016

Ma insomma, si può o non si può?

Durante i miei workshop in giro per le città, una delle domande ricorrenti da parte dei partecipanti riguarda la fotografia di persone: posso fotografare la bella turista seduta al tavolino del bar? Posso fotografare la piazza anche se c’è della gente? Posso fotografare il clochard che chiede l’elemosina?
Ho fatto apposta tre esempi diversi per poter parlare della varia e non certo semplice casistica che l’argomento comporta.

Cominciamo dall’inizio, ricordando che la materia è normata dalla Legge sul diritto d’autore (633/1941 e successive modificazioni) e dal Codice Civile.
Non – come molti credono – dal Decreto Legislativo 196/2003 (la cosiddetta “legge sulla privacy”) che tratta di protezione dei dati personali e non si occupa di ritratto.
La legge italiana (una volta tanto) è molto chiara in proposito: l’articolo 96 dice esplicitamente che “il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto e messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente”.
Okay, e che dice l’articolo seguente?
Eccolo: “Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”.
E aggiunge:
“Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritratta”.

Che cosa si deduce da tutto questo?

Bene, prima di tutto la buona notizia: la legge parla di pubblicazione e di messa in commercio.
Perciò, il dilettante che fotografa per hobby e che tiene le foto per sé, o al massimo le mostra a familiari e amici, è libero di fotografare chiunque in qualunque occasione senza chiedere il permesso a nessuno.
Almeno in teoria.
Perché, ovviamente, va rispettata la buona educazione e va rispettato il diritto alla riservatezza: la persona contro la quale puntiamo l’obiettivo non sa perché lo facciamo e può a buon diritto opporsi.
In questo caso è nostro dovere rispettare la sua volontà.
Ma questa non è materia di legge, è semplice convivenza civile!

La discriminante – dice la legge – è la pubblicazione, che consiste non soltanto nella riproduzione a mezzo stampa, ma nel “rendere pubblico”, cioè esporre, (anche senza scopo di lucro), riprodurre e mettere in commercio.
Quindi se fotografo un amico e metto la sua immagine su Instagram senza chiedergli il permesso, violo la legge, cosa a cui normalmente la maggioranza delle persone non pensa.
Conseguenza: le scrivanie dei magistrati sono sempre più affollate di querele che riguardano proprio questo argomento: persone fotografate con il loro consenso ma sbattute sui social network senza il loro consenso!
Ovviamente – sempre secondo la legge – il consenso deve essere scritto e firmato dalla persona ritratta, indipendentemente dal fatto che il fotografo voglia farne un uso commerciale oppure no.
In rete si trovano diversi modelli di liberatoria (o release) già pronti.
La fotografia contrassegnata con il numero 1 e pubblicata in calce a questo articolo riproduce il modello di liberatoria adottato da una nota agenzia internazionale.

Ma come faccio a capire se la mia fotografia è una semplice fotografia con persone (che non richiede liberatoria) o se è un ritratto vero e proprio?

Semplice: se fotografo un gruppo di persone, nessuna delle quali possa risultare identificabile come soggetto della foto, posso pubblicare l’immagine senza problemi.
Esempio: la strada di una città d’arte piena di turisti, una piazza con dei passanti, un sentiero di montagna su cui camminano degli escursionisti…
La fotografia contrassegnata con il numero 2 raffigura una strada di Briançon (Francia) affollata di turisti.
Nessuno può essere identificato come soggetto della fotografia, che di conseguenza è liberamente pubblicabile (almeno in Italia. Del resto del mondo parliamo tra poco).
Lo stesso vale per una persona isolata che non sia riconoscibile, o che occupi una parte minima dell’inquadratura.
La foto numero 3 è stata scattata nella Piazza Ducale di Vigevano.
La presenza dei ciclisti, dei passanti e delle persone sedute al bar è del tutto incidentale e nessuno di loro può essere identificato come soggetto della composizione.
L’importante quindi è che si capisca chiaramente che il soggetto della fotografia è l’ambiente e non sono le persone.
Per avere una controprova inequivocabile, provate a chiedervi se – togliendo le persone – la fotografia avrebbe ugualmente un senso.
Se la risposta è affermativa, l’immagine può essere pubblicata.

Quanto detto finora vale per la legge italiana.
Le agenzie internazionali (che vendono in tutto il mondo e quindi sono costrette ad applicare il principio della massima cautela), chiedono la liberatoria sempre, anche quando le persone presenti nella scena non sono identificabili come soggetto della fotografia.
Qualora non sia possibile procurarsi una liberatoria (come negli esempi sopra citati), la fotografia può essere ceduta all’agenzia “for editorial use only”, cioè per solo uso editoriale e non commerciale.
In altre parole, l’immagine potrà essere pubblicata su una rivista, su Internet o su un’enciclopedia, ma non – ad esempio – utilizzata da un’agenzia pubblicitaria, che ha scopi commerciali.
Le foto viste prima (2 e 3), liberamente pubblicabili in Italia, sono state cedute a Getty Images con la limitazione “editorial use”.

Che cosa succede invece se fotografo la bella turista che prende la tintarella sul bordo della piscina dell’hotel?
Succede che – se voglio pubblicare la foto sul mio profilo Facebook, su Flickr, su Instagram o sul giornalino della parrocchia – devo farle firmare la liberatoria.
In caso contrario lei mi potrà querelare e io andrò incontro a una causa civile (con conseguente indennizzo) e forse anche penale.
Infatti, se la persona ritratta riesce a dimostrare che la mia fotografia offende la sua reputazione, io dovrò non soltanto risarcire il danno, ma anche rispondere del reato di diffamazione aggravata: da sei mesi a tre anni, oltre alla multa, e scusate se è poco.
La foto 4 è chiaramente ed inequivocabilmente un ritratto, che non può essere pubblicato se non con il consenso della persona o – nel caso di minori – dei genitori (tranquilli, ce l’ho).

Ci sono delle eccezioni?
Sì, e sono quelle che vediamo illustrate, con molta chiarezza, nell’articolo 97.

Prima eccezione: la persona è famosa, oppure ricopre un incarico pubblico.
In questo caso la posso fotografare e posso pubblicare la fotografia senza bisogno di liberatoria.
In pratica: posso pubblicare la foto del Presidente della Repubblica in visita ufficiale alla mia città, del calciatore durante una partita, del cantante alla moda durante un’esibizione pubblica.
Attenzione: perché la foto sia liberamente pubblicabile occorre che queste persone famose siano ritratte nell’ambito delle loro funzioni istituzionali o della loro attività.
Se riprendo il presidente della Confindustria che gioca con il suo cane nel giardino di casa, allora non posso pubblicare le immagini, a meno che non voglia arricchire il mio avvocato!
Allo stesso modo (come ha evidenziato la Corte di Cassazione) non posso pubblicare il ritratto di una persona famosa se il mio scopo è il lucro (ad esempio il merchandising o la pubblicità).

Seconda eccezione: la liberatoria non è richiesta qualora le riprese vengano effettuate per scopi di giustizia o di polizia.
È ovvio che un agente di pubblica sicurezza non deve chiedere la liberatoria al sospettato di cui sta seguendo e documentando i movimenti!

Terza eccezione: la pubblicazione ha scopi scientifici, culturali o didattici (ad esempio, devo illustrare un trattato di antropologia e ho bisogno di pubblicare il ritratto di diverse persone).
In questo caso, però, il soggetto può chiedere la non riconoscibilità del volto (la classica striscia nera sugli occhi) se ritiene che il ritratto sia lesivo della sua dignità o anche semplicemente se non vuole essere riconosciuto.

Quarta eccezione: non è richiesta la liberatoria se il ritratto della persona compare incidentalmente all’interno di un’immagine raffigurante fatti che si svolgono pubblicamente, o sono di interesse pubblico, e il suo viso non è isolato dal contesto, anche se riconoscibile.
La foto 5 raffigura un gruppo di turisti in coda davanti a una bancarella di dolciumi a Innsbruck (Austria), durante il mercatino di Natale.
Anche se alcune persone potrebbero riconoscersi nella foto, la legge italiana consente la pubblicazione senza necessità di liberatoria, perché si tratta di una ripresa d’ambiente e non di un ritratto.
La foto 6 è stata scattata durante un concerto degli Acquaragia Drom presso l’Arsenale della Pace di Torino.
Oltre ai componenti del gruppo, nell’inquadratura entrano anche alcuni spettatori che potrebbero riconoscersi, se vedessero la foto.
Ma trattandosi di una manifestazione pubblica, l’immagine può essere pubblicata senza bisogno del loro consenso.
Perciò, se sto lavorando in una spiaggia affollata e un tizio mi chiede di cancellare uno scatto dalla scheda di memoria perché gli sembra che io abbia puntato l’obiettivo nella sua direzione, è lui che sta commettendo un abuso e sono io che dovrei chiamare i carabinieri (sperando che conoscano bene la Legge 633).

Riassumendo, fatte salve le eccezioni di legge appena illustrate, ogni fotografia di persone che possa configurarsi come ritratto non può essere resa pubblica senza il consenso scritto del soggetto.

A chi non fosse ancora convinto di quanto abbiamo detto finora, insomma a chi obiettasse “io non ho mai fatto firmare nulla e nessuno mi ha mai detto niente”, racconterò una storia vera (e triste).
Nel 1950 Robert Doisneau scattò una celebre fotografia, Le baiser de l’Hôtel de Ville (foto 7).
L’immagine, pubblicata sulla rivista “Life”, diede al fotografo fama internazionale.
Nel 1992 (quarantadue anni dopo!) i coniugi Lavergne dissero di essersi riconosciuti nel ritratto e pretesero 500mila franchi come indennizzo per violazione della loro vita privata.
Doisneau smascherò i due imbroglioni, rivelando che la foto era stata “costruita”: per farla, egli aveva messo in posa due giovani aspiranti attori, Jacques Carteaud e Françoise Bornet, all’epoca fidanzati.
Doisneau aveva poi regalato ai due una copia (numerata e firmata) della fotografia, oltre a un compenso di 500 franchi.
Ma la cosa non finì qui, perché l’ormai anziana madame Bornet, venuta a conoscenza della disputa, approfittò della ghiotta occasione e fece causa a Doisneau per sfruttamento abusivo della sua immagine, chiedendo 100mila franchi e una percentuale sui diritti di commercializzazione.
Per dimostrare di essere proprio lei la ragazza della foto, esibì in tribunale la stampa regalatale dall’autore, che – essendo numerata e firmata – costituiva una prova inequivocabile.
Del resto, lo stesso Doisneau non ebbe difficoltà a riconoscere nella donna la protagonista della sua opera.
Jacques Carteaud, al contrario, rifiutò elegantemente di unirsi alla sua ex nel processo, per non trasformare “una storia di fotografia in una faccenda di soldi”.
Ma il tribunale diede torto alla Bornet, dichiarando che nella foto il suo volto non era riconoscibile.
In ogni caso la signora non rimase a becco asciutto: nel 2005 (un anno dopo la morte di Doisneau) vendette la stampa in suo possesso, ricavandone un guadagno di 185mila Euro!
Per cui…
Meditate gente, meditate!
Ma specialmente, scrivete sempre TUTTO!

Attenzione: esistono luoghi e persone che – per motivi di sicurezza – è tassativamente vietato riprendere (con o senza liberatoria).
I luoghi sono i potenziali obiettivi militari: stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, caserme, strutture di proprietà dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione militare.
Le persone sono coloro che fanno parte di queste istituzioni.
Capiamoci: se siete in vacanza con la famiglia e riprendete col telefonino l’aereo sul quale state per imbarcarvi (giusto per stressare gli amici con le foto delle vacanze e far sapere che sì, quello era proprio il vostro), nessuno vi dirà niente.
Ma provate ad aggirarvi per l’aeroporto da soli, imbracciando la reflex con uno zoom che neanche il telescopio Hubble, e vedrete che ben presto un paio di signori in divisa vi si avvicineranno chiedendovi – con gentilezza ma con un tono che non ammette repliche – chi diavolo siete e cosa diavolo state cercando di fare.

Abbiamo lasciato per ultimo il paragrafo di legge forse più importante, quello che vieta la pubblicazione quando la fotografia reca “pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritratta”.
Se durante una festa fotografo l’amica ubriaca che balla nuda su un tavolo e poi pubblico l’immagine su un social network, sono passibile di querela.
Giustamente, perché già sono stato un coglione a fare la foto; se poi anche la pubblico, allora dovrebbero mettermi in galera e buttare via la chiave, perché non merito di stare al mondo.
Mi scuso per la brutalità del testo, ma certi comportamenti mi fanno dubitare dell’opportunità di sopravvivenza della nostra specie.
Analogo discorso vale per il clochard citato all’inizio, per il prigioniero ammanettato che non può coprirsi il volto con le mani, per le persone colpite da eventi tragici o catastrofici.
Mi infurio come una belva quando in televisione vedo l’intervistatrice, fresca di trucco e parrucco, avvicinarsi all’anziana terremotata che ha perso casa e familiari per chiederle “Che cosa prova?”.
Vorrei essere lì per fracassarle il microfono sul cranio.
Cosa accidenti vuoi che provi, razza di oca!?
Smettiamola con questa mistificazione del “dovere di informazione”, in nome del quale si viola l’intimità delle persone, se ne invade il dolore, senza nemmeno rispettare la disperazione di chi ha perso tutto, eccetto gli occhi per piangere.
È un malcostume talmente diffuso che non ce ne accorgiamo nemmeno più, narcotizzati come siamo dall’orgia mediatica che tutto trasforma in spettacolo.

Perché al di là delle aride normative di legge, la ripresa di persone merita un discorso etico decisamente più elevato.
La fotografia è di fatto un’intromissione nella vita di altri esseri umani: è come origliare dietro una porta, o sbirciare dalla finestra all’interno di una casa.
Per cui non capisco con che diritto dovremmo poter immortalare il mendicante per strada, la compagna di crociera o dei contadini che raccolgono il fieno senza chiedere il loro permesso, indipendentemente dal fatto che vogliamo pubblicare le immagini oppure no.
La foto 8 ritrae un artigiano del legno al lavoro a Bourg-Saint-Maurice (Francia).
Prima di scattarla ho scambiato con lui qualche parola, mi sono interessato al suo lavoro, abbiamo anche chiacchierato di fotografia, infine gli ho chiesto se potevo riprenderlo mentre lavorava.
Mi ha risposto, quasi commosso, che nessuno glielo aveva mai chiesto e che tutti gli sparavano in faccia i loro flash del cavolo senza nemmeno degnarlo di un saluto.
E pensare che ci vuole così poco!
Ma ancora peggio, con quale pretesa superiorità andiamo nei paesi poveri e offriamo denaro in cambio dell’immagine?
Non ci rendiamo conto che così non facciamo altro che esportare una mentalità rapinatoria (molto occidentale) secondo cui tutto può essere oggetto di commercio, compresa la propria immagine?
Perciò evitiamo di scattare e subito allontanarci, come se ci rendessimo conto che l’azione appena compiuta potrebbe non essere del tutto condivisibile.
Al contrario, trasformiamo il nostro fotografare in una vera comunicazione (vorrei dire “compassione”, nel suo significato etimologico di “sentire insieme”): un saluto, un sorriso, qualche parola o una battuta simpatica renderanno “umano” (ma preferisco dire umanistico) il nostro operare.
Non limitiamoci a scattare la fotografia di un uomo, ma impariamo a portare l’Uomo dentro la fotografia!
Solo così cesseremo di essere dilettanti d’assalto per trasformarci in veri protagonisti della comunicazione.

Alla prossima.

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