Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

MAGGIO 2020

Elogio della semplicità

L’uomo vede la iena.
L’uomo scaglia la freccia.
L’uomo colpisce la iena.
La iena scappa.
La iena cade.
La iena è morente.
L’uomo raggiunge la iena.
L’uomo finisce la iena.
L’uomo prepara la rete.
L’uomo mette la iena nella rete.
L’uomo porta la iena.
L’uomo ritorna a casa.
L’uomo mangia la iena.
Poi va a dormire.

Quella che avete appena letto è vera letteratura.
È letteratura orale del popolo dei Boscimani, detti anche Basarwa, o San, cacciatori-raccoglitori che vivono nel Kalahari.
Per quanto possa farci sorridere la semplicità della narrazione, questo è il primo brano che leggevo a chi si iscriveva ai miei corsi di scrittura creativa.
Perché è l'esempio più illustre di come dovrebbe esprimersi chi scrive per farsi capire: soggetto, verbo, complemento, punto.
Non a caso i manuali di stile più diffusi negli Stati Uniti, soprattutto quelli che si rivolgono a chi debba fare informazione e divulgazione scientifica, raccomandano proprio di attenersi a questo semplice schema, evitando soprattutto di “allungare il brodo” (cosa che tutti noi abbiamo fatto in fase di redazione della tesi di laurea) con locuzioni complesse: “in order to” va sostituito con “to”, così come, in italiano, “allo scopo di” va sostituito con “per”.
Dopo che si sarà imparato a comunicare con chiarezza e semplicità, allora si potrà iniziare a giocare con le parole e con le frasi, restando però ben consapevoli che quanto più si arricchisce e si complica la frase, tanto più lungo e faticoso sarà – da parte del lettore – il processo di decodificazione.
Consiglio, a chi conosca l’inglese, la lettura di questo libro: Writing Tools: 50 Essential Strategies for Every Writer, di Roy Peter Clark (New York – Boston – London, Little Brown and Company, 2006).
Personalmente, mi accorgo subito se chi mi parla è davvero esperto della materia che sta trattando: se sa spiegare concetti complessi in modo semplice e con frasi brevi e compiute, allora sa davvero di che cosa sta parlando; se inizia a usare frasi complicate, ricche di anacoluti, di incisi e di proposizioni subordinate, allora sospetto che si stia arrampicando sugli specchi, o perché non conosce l’argomento oppure perché sta cercando di imbrogliarmi.

Riporto, giusto per divertimento, alcune frasi di un testo filosofico che ho letto recentemente:

“La capacità che una teoria mostra di essere strumento euristico per la comprensione della realtà storico-culturale è un criterio dirimente per l’assunzione, piena o parziale, dei risultati in materia. Solo che tali risultati non potranno mai essere intesi come l’esposizione di una costellazione di fatti
che abitano un altrove, spaziale o temporale, collocato al di fuori della sfera in cui opera il soggetto della scienza […] Ciò va ricordato non solo perché l’enciclopedia filologica ha partorito tanto i saperi antropologico-culturali quanto quelli storico-religiosi, ovvero quei saperi che, in varia misura e con accenti diversi a seconda della storia nazionale propria di ciascuna disciplina, hanno poi  prodotto il sapere novecentesco sul mito, ma soprattutto perché nulla meglio delle aporie che si accumulano all’interno del sapere filologico fa intravedere in che misura le scienze umane siano sempre, in maniera costitutiva, il luogo che il soggetto moderno abita per dirsi, per raccontarsi, per testare la tenuta dei modelli di razionalità che sono supposti certificare la sua superiorità rispetto ad altre forme di soggettivazione”.

Chiaro, no?
Il saggio è lungo 102 pagine. Immaginate lo sforzo necessario per leggerlo?
Non perché contenga parole “difficili” (sono parole che conosco benissimo), ma per la sua complessità sintattica, basata sui livelli di subordinazione, mentre – al contrario – concetti così complessi sarebbero molto più comprensibili con una costruzione prevalentemente paratattica.
E non importa se si tratta di un saggio per addetti ai lavori (l’ho letto perché interessato agli aspetti semiologici del mito): anche se sono un addetto ai lavori ho il diritto di non farmi venire il mal di testa quando studio.

Come faccio spesso, ho iniziato da un argomento non fotografico per arrivare a parlare di fotografia.
Troppo spesso il fotografo amatoriale si concentra a tal punto su ciò che gli interessa da non considerare (perché non li vede neppure) tutti gli elementi che circondano il soggetto e che non hanno alcuna attinenza con esso o con il racconto fotografico.
Questo perché noi non vediamo con gli occhi, ma con il cervello, e di fatto il nostro cervello esclude, elimina, cancella tutto ciò a cui in quel momento non sta facendo attenzione.
Purtroppo l’obiettivo non elimina, non esclude, ma include nell’inquadratura tutto ciò che vede.
Compresi elementi indesiderati o addirittura fortemente disturbanti.
Ma anche quando nell’inquadratura non troneggiano cestini della spazzatura o cani che fanno pipì contro il muro, occorre egualmente prestare attenzione a ciò che si inquadra.
Lo sfondo (intendendo con questo tutto ciò che circonda il soggetto, non solo ciò che gli sta dietro) ha una funzione ben precisa: deve guidare l’attenzione dello spettatore verso il punto di interesse.
Gli elementi che lo costituiscono sono veri e propri “indici vettori” che dicono all’osservatore “Dirigi la tua attenzione verso il soggetto principale, che è questo”.
Ne consegue che tutti gli elementi inutili, cioè inadatti o inadeguati a guidare l’attenzione verso il soggetto principale, devono essere eliminati.
La fotografia, come un discorso correttamente articolato, deve essere semplice: meno elementi contiene meglio è, perché in questo modo sarà più chiara e immediatamente comprensibile.
I “trucchi” e le strategie per eliminare dall’inquadratura gli elementi indesiderati sono trattati, con numerosi esempi, nel tutorial pubblicato sul nostro canale YouTube (https://youtu.be/7GhiL2O19vY).

Alla prossima.