L'articolo del mese
NOVEMBRE 2021
Fermi tutti!
Cavalletto, stabilizzatore, mano libera: come stanno veramente le cose.
Quando, negli anni 80, il celebre fotografo e documentarista Folco Quilici faceva il testimonial per una nota marca italiana di cavalletti, affermava: “Se non posso usare il cavalletto, preferisco rinunciare alla fotografia”.
Okay, era pubblicità, ma non era un’esagerazione.
Anzi, questa affermazione sottolineava quanto il professionista tenga alla stabilità, al punto da evitare il più possibile di lavorare a mano libera.
Ma non esiste quella famosa regola, secondo la quale siamo tranquilli con un tempo di otturazione che è il reciproco della lunghezza focale dell’obiettivo?
Tradotto in italiano, se ho un 50 mm, non sono tranquillo a 1/50 di secondo?
Se ho un 100 mm, non sono tranquillo a 1/100 di secondo?
Una regola ripetuta prima da manuali e riviste, poi da decine, forse centinaia di siti Internet, che si copiano l’un l’altro senza ragionare sul perché dei fenomeni e sull’origine di quello che affermano.
Questa regola nacque, pensate un po’, negli anni Trenta, quando iniziarono a diffondersi le prime fotocamere che usavano pellicola 35 mm, permettendo di lavorare in modo agile e veloce.
Bisogna però dire che la qualità degli obiettivi e delle pellicole, ma soprattutto il piccolo formato delle stampe in uso all’epoca, erano in grado di nascondere molti errori, tra cui anche un certo grado di micromosso.
Quando muovevo i primi passi sulla strada della fotografia, divoravo avidamente manuali e riviste (Internet non esisteva), e vedevo che questa regola era ripetuta come un credo incrollabile.
Tuttavia, quelli capaci di ragionare senza limitarsi a copiare pedestremente, già dicevano che la regola vale soltanto se si stampano i negativi in formato cartolina, ma che il tempo di otturazione va dimezzato a ogni incremento del formato di stampa: così, il mio cinquantesimo di secondo diventava 1/100 per stampe 13×18, e addirittura 1/200 per stampe 20×30.
Chi sosteneva questo, distaccandosi dal monotono salmodiare della maggioranza, magari sparava numeri a caso, ma almeno aveva capito come stanno davvero le cose, e cioè che la percezione di nitidezza non dipende dal tempo di otturazione, ma dall’ingrandimento a cui si sottopone il fotogramma.
Nel digitale, tutto questo diventa evidente, perché una fotografia digitale viene giudicata portandola al 100% sullo schermo del computer, e questo rivela impietosamente ogni difetto, fra i primi il micromosso.
Micromosso che è tanto più avvertibile quanto più denso è il sensore.
Per una questione di geometria spicciola, lo stesso grado di spostamento angolare coinvolge pochi pixel in un sensore a bassa risoluzione, ma molti più pixel in un sensore di risoluzione più elevata.
Di conseguenza, nel secondo caso l’effetto dello spostamento diventa più evidente.
In determinate condizioni (ad esempio quando la distanza di ripresa è ridotta) si possono ottenere immagini mosse anche a un cinquecentesimo o addirittura a un millesimo di secondo (se non ci credete, guardate questo tutorial: https://youtu.be/Vjostgk1kB8).
I nostri sensori sempre più densi rendono obsoleta, anzi deleteria, la famosa regoletta, e ormai l’unico modo per evitare il micromosso è cercare la massima stabilità: macchina sul cavalletto, specchio sollevato se si usa una reflex, scatto remoto o ritardato.
Conosco già la domanda: ma tu non lavori mai a mano libera?
Sì, certamente, soprattutto quando so che la fotografia sarà destinata al web, o alla mezza pagina di una rivista, e che quindi sarà stampata o visualizzata in dimensioni ridotte.
Solo a queste condizioni sono disposto a rischiare.
Ma anche in questi casi cerco sempre un appoggio stabile, una superficie sulla quale posare la macchina, un pilastro contro il quale spingerla, e pazienza se l’inquadratura sarà diversa da quella che avevo in mente, quella che avrei ottenuto tenendo la macchina in mano: con un minimo di creatività e di fantasia, il punto di ripresa si può cambiare, pur continuando a raccontare la stessa cosa, e anche se con una diversa inquadratura, una foto la si porta a casa lo stesso.
Ma se è poco nitida a causa del micromosso, allora la si butta.
Sento già risuonare l’obiezione: “Ma lo stabilizzatore non risolve il problema?”.
Ok, vediamo di fare chiarezza.
Nelle reflex, lo stabilizzatore fu introdotto da Canon nel 1995, sul suo 75-300 IS (che sta per image stabilizer).
Un obiettivo economico e dalle performance non eccezionali, che però si prestava bene come cavia.
La casa dichiarava un guadagno netto di due stop.
Da allora i progressi sono stati incessanti.
Gli obiettivi stabilizzati di nuova generazione consentono la scelta tra due o anche tre modalità di stabilizzazione, a seconda delle esigenze di utilizzo.
Ma come funziona in pratica?
Il principio si basa su sensori piezoelettrici di velocità angolare, o sensori giroscopici, che rilevano i movimenti e inviano le informazioni a una CPU, la quale analizza i dati e comanda dei micromotori capaci di spostare uno o più gruppi ottici all’interno dell’obiettivo per controbilanciare i movimenti involontari della mano.
Più recentemente, la stabilizzazione è stata applicata anche (o esclusivamente) al sensore, soprattutto nelle fotocamere mirrorless.
Il sistema è chiamato IBIS (in-body image stabilization).
Ad esempio, nella Fuji GFX 100, un processore dual-core collegato a un sensore giroscopico e a un accelerometro garantisce una stabilizzazione su cinque assi assicurando – dichiara la casa – un guadagno che supera i cinque stop.
Il tutto praticamente in tempo reale.
Il vantaggio della stabilizzazione sul sensore consiste nella possibilità di utilizzare obiettivi non stabilizzati e pertanto più economici.
La stabilizzazione garantisce un’elevata percentuale di scatti nitidi entro una gamma limitata di tempi di otturazione.
In parole semplici, se pretendo di scattare a mano libera a due secondi… eh beh, non c’è stabilizzatore che tenga, mentre se scatto a un millesimo di secondo ottengo fotografie nitide anche senza stabilizzazione (tranne che a distanza molto ravvicinata, come abbiamo detto prima).
Molti consigliano di escludere la stabilizzazione quando la macchina è montata sul cavalletto, perché in questo caso il giroscopio “impazzirebbe”, compensando movimenti inesistenti e generando di conseguenza immagini mosse.
Questo è vero (posso garantirlo perché a me è accaduto) per alcuni obiettivi di vecchia generazione.
Ma alcuni fra gli obiettivi più recenti sono in grado di rilevare la presenza del cavalletto, automaticamente o agendo su un apposito cursore.
Inoltre la tecnologia si è evoluta e oggi il fenomeno è praticamente inesistente.
Un consiglio spesso ripetuto è quello di premere a metà il pulsante di scatto (meglio se remoto, per evitare vibrazioni dovute alla pressione del dito) qualche istante prima dell'esposizione, per consentire al sistema di stabilizzazione di rilevare la presenza del treppiede.
Attenzione ai supertele: anche se montati su un pesante e solido supporto, il loro peso e le loro dimensioni li rendono comunque soggetti al rischio di vibrazioni (soprattutto in caso di vento).
Consideriamo che il punto di fissaggio è comunque uno solo, e anche se coincide con il baricentro del sistema macchina-obiettivo, non può impedire micromovimenti di spostamento laterale.
Per questo quando uso obiettivi superiori ai 200 millimetri preferisco non escludere lo stabilizzatore, neppure sul cavalletto.
Eh, sì, lavorare a mano libera a un trentesimo di secondo era un sogno fino a pochi anni fa, e sicuramente diventa vantaggioso quando la situazione sconsiglia o impedisce l’uso del cavalletto.
Dal 1995 ne è stata fatta di strada, ma anche se gli stabilizzatori più recenti sono “quasi” miracolosi, di fatto – almeno per ora – non tutti sono in grado di sostituire un appoggio stabile, unito al sollevamento preventivo dello specchio se si usa una reflex e allo scatto remoto o ritardato, come già abbiamo spiegato.
Ma si sa, i progressi della tecnologia sono galoppanti e presto anche questo discorso potrebbe diventare obsoleto.
Certo, dobbiamo continuare a restare aggiornati e capire dove sta andando il mercato.
L’importante, però, non è inseguire a tutti i costi l’ultima novità, ma valutare con attenzione quali strumenti siano più adatti a esprimere e a sviluppare la nostra creatività.
Alla prossima.