Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

DICEMBRE 2019

Il grande cestino

Recentemente ho concluso la revisione annuale del mio archivio.
Ho eliminato 12.350 fotografie su circa 35.000, non sbagliate o insignificanti (quelle le elimino subito), ma semplicemente non più rispondenti agli standard di qualità che oggi ritengo necessari. Faccio notare che molte delle fotografie che ho eliminato erano state acquistate in passato e pubblicate su libri, riviste ecc.

Non pretendo che i fotoamatori imitino il mio metodo drastico e impietoso, ma vorrei che capissero come soltanto una selezione severa e imparziale, priva di sentimentalismi e di inutili nostalgie, sia davvero in grado di farci crescere qualitativamente.

Capisco che il mio metodo possa apparire esagerato e suscitare reazioni contrastanti, ma soprattutto forti obiezioni.
L’obiezione più frequente (ma anche la più scontata e prevedibile) riguarda la funzione della fotografia come strumento privilegiato per la conservazione dei ricordi.
Molti, infatti, ritengono che la fotografia possa anche essere mossa, sfocata o sbagliata, ma se è un ricordo va conservata.

Opinione legittima e – sotto un certo punto di vista – comprensibile e condivisibile, ma a mio avviso pericolosamente ambigua.

Che cosa vogliamo essere?
Se vogliamo essere mamme, papà, mogli, fidanzate, ferrovieri, bancari, panettieri, cugini, impiegati… insomma persone che usano la fotografia per documentare e ricordare viaggi, vacanze, cene con gli amici e altri eventi, allora possiamo tranquillamente fregarcene della qualità delle nostre foto: la loro funzione è semplicemente quella di ricordarci un fatto, un’occasione, un momento emotivamente connotato.
Che siano tecnicamente ineccepibili oppure no, è irrilevante: anche una foto di compleanno fatta con lo smartphone a mano libera e senza flash in sala da pranzo (e quindi pesantemente mossa e zeppa di rumore a causa della luce scarsa) può essere ritenuta accettabile.

Chi ragiona in questo modo non ha l’ambizione di migliorare la propria tecnica, né quella di affinare il proprio gusto estetico: per lui (o lei) la fotografia è come un appunto preso in fretta, come una nota di viaggio, come il biglietto aereo conservato nella scatola dei ricordi.

Fotografie del genere possono anche essere mostrate ad altri e condivise, giusto per far sapere agli amici dove siamo stati, che cosa abbiamo visto, che pizza abbiamo mangiato e com’era bello il tramonto a cui abbiamo assistito.
Che poi ai nostri amici (o follower) importi qualcosa delle nostre pizze e dei nostri tramonti è una faccenda che sembra non riguardarci, ci basta un “like” e siamo contenti.

Ma se vogliamo essere fotografi (e con “fotografi” intendo non “fotografi professionisti” ma “persone che hanno qualcosa da dire e intendono comunicarlo con le immagini”) allora dobbiamo accettare il fatto che la crescita passa (anche) attraverso un serio lavoro di selezione.

Lo abbiamo imparato molto presto, sui banchi di scuola.
L’esecuzione di un compito (mi riferisco soprattutto ai compiti di natura creativa, come un tema o un riassunto) passava attraverso varie fasi: la preparazione di una traccia grossolana, seguita da una stesura più articolata, conclusa da un lavoro di rilettura con revisioni e aggiunte.
Ma soprattutto con tagli drastici.
Questa era la “brutta”, o “minuta”, che veniva poi ricopiata (e durante la copiatura si eseguivano ulteriori miglioramenti e correzioni, soprattutto eliminando i concetti ripetuti) e presentata all’insegnante sotto forma di “bella”.

Quanto più imparavamo a scrivere, tanto più rapidi erano i passaggi, fino a quando – negli anni dell’università – si poteva quasi saltare la fase preparatoria.
Per quanto mi riguarda, ormai scrivo di getto, riordinando rapidamente le idee prima di formulare la frase e senza quasi apportare correzioni in fase di rilettura.
Dopo una vita trascorsa nella sua prima metà davanti a una Olivetti Lettera 22 e nella seconda metà davanti alla tastiera di un PC, scrivere è per me quasi più facile che parlare, al punto che – quando non so come esprimere un concetto a parole – mi chiedo come lo scriverei.

In fotografia accade la stessa cosa.

Se vogliamo comunicare con la fotografia dobbiamo imparare (o re-imparare) a svolgere un tema, o meglio un progetto, passando attraverso le fasi della traccia, della brutta, della revisione e della copiatura in bella.

Essere fotografi non significa vedere un bel tramonto e fare clic, ma iniziare a chiedersi “qual è il mio progetto di oggi? Che cosa voglio raccontare?”.

Questa sarà la nostra “traccia”, che svilupperemo inizialmente in modo casuale, raccogliendo appunti, scattando molto, senza timore di tentare diversi approcci e sperimentare differenti punti di vista.
Ma poi dovremo effettuare una selezione severa, perché questi “appunti visivi” dovranno essere coordinati e organizzati a formare un discorso unitario e coerente: un reportage.
Questa sarà la nostra “bella”, ovviamente scritta in modo impeccabile, cioè senza errori di grammatica o di sintassi (fuor di metafora, senza errori tecnici o approssimazioni compositive).

A questo punto – e solo a questo punto – potremo mostrare il nostro lavoro perché sia valutato, giudicato e apprezzato: tutta la fase precedente (le prove, gli esperimenti, i tentativi, insomma la brutta) dovremo tenercela per noi.

Un simile approccio alla fotografia implica – necessariamente – la consapevolezza che non soltanto l’esercizio continuo, ma anche e soprattutto una drastica capacità di selezione e revisione potranno consentirci di crescere e progredire.

A proposito, se qualcuno chiedesse “Ma Michele Vacchiano effettua una selezione così drastica anche sulle foto di famiglia, che tradizionalmente tutti conservano anche se sbagliate, pur di tramandare un ricordo?”, gli risponderei che sì, anche le foto dei miei figli o degli eventi familiari subiscono una severa selezione.
Del resto, a che servirebbe conservare la fotografia brutta di un evento bello?

Alla prossima.