Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

GENNAIO 2021

Canne al vento

Un paio di settimane fa, un distinto signore iscritto a uno dei corsi che Roberto Giachino ed io organizziamo online, ci ha mostrato una sua fotografia, scattata sulla riva bresciana del Lago di Garda, chiedendoci se e come potesse essere trattata al meglio in postproduzione.

La fotografia è formalmente piuttosto semplice: raffigura un tipico paesaggio lacustre, con delle alte festuche in primo piano, lo specchio d’acqua nel piano intermedio e le montagne della riva opposta sullo sfondo, sovrastate da un cielo corrucciato e gonfio di nuvole.

A dirla tutta, le foto in realtà sono due: la prima con messa a fuoco sulle erbe in primo piano, la seconda con messa a fuoco sulle montagne di sfondo.
L’intenzione dell’autore era quella di unirle in focus stacking utilizzando i livelli di Photoshop.
Le due immagini, realizzate su treppiede, sono state scattate con una reflex Canon 80D (sensore APS-C da 24,2 milioni di pixel), ISO 100, 1/50 di secondo a f/14, con obiettivo Canon EF 70-200mm f/4 USM, alla focale di 73 millimetri.

Le fotografie soffrono di alcuni errori effettuati in ripresa.

Prima di tutto, è stato usato un obiettivo progettato per il full-frame su un sensore di formato inferiore.
Contrariamente a quanti molti pensano – ritenendo più “professionali”, e quindi più performanti, gli obiettivi progettati per un formato superiore – questo è un errore: il potere risolvente degli obiettivi è calcolato tenendo conto del formato che devono coprire, pertanto un obiettivo progettato per il formato 24x36mm non sarà in grado di soddisfare le esigenze di sensori più piccoli e più densi.

In secondo luogo, è stato impostata un’apertura relativa pari a f/14.
Anche questo è un errore, perché f/14 è un diaframma troppo chiuso per evitare le perdite di nitidezza dovute alla diffrazione.
Richiamiamo brevemente il concetto.
Quando un fronte di onde elettromagnetiche oltrepassa un ostacolo netto (come le lamelle del diaframma), viene leggermente deviato, cioè diffratto.
Se l’apertura del diaframma è larga, la quantità di luce diffratta è percentualmente insignificante rispetto alla quantità di luce che non viene deviata; ma quanto più il foro si stringe, tanto più la percentuale di luce diffratta diviene significativa rispetto alla quantità di luce che viaggia in linea retta.
In questo modo la diffrazione (che – lo sottolineiamo – è un fenomeno sempre presente, ma reso ininfluente alle aperture maggiori) riesce ad abbassare significativamente la nitidezza dell’immagine.
Questo è il motivo per cui gli obiettivi (fatte salve poche e specialistiche eccezioni) andrebbero sempre utilizzati ai diaframmi intermedi: in questa situazione, le aberrazioni residue che si possono presentare ai diaframmi più aperti sono ormai corrette, mentre la diffrazione non ha ancora fatto sentire i suoi effetti.
Ovviamente, qualora esistano fondate esigenze che impongono di lavorare a diaframmi molto aperti (messa a fuoco selettiva per sfocare lo sfondo) o molto chiusi (necessità di un’estesa profondità di campo apparente), si preferisce perdere un po’ di qualità per colpa delle aberrazioni residue o della diffrazione piuttosto che non valorizzare adeguatamente il soggetto o sfocare un particolare importante.
Ma non era questo il caso.

Il terzo limite è rappresentato da un avvertibile effetto foschia sui piani lontani, dovuto evidentemente alle condizioni atmosferiche, che ha causato una forte perdita di definizione e un “impastamento” dei toni che impedisce di percepire particolari nitidi.

Infine, le due fotografie (benché scattate ricorrendo al treppiede) non sono perfettamente allineate.
Il non perfetto allineamento dello sfondo non è un problema, perché si risolve in pochi passaggi su Photoshop.
Il vero problema sono le canne mosse dal vento, che nelle due immagini occupano posizioni differenti.
Se si trasformano le due fotografie in livelli di Photoshop e si cerca di unirle in focus stacking con la fusione automatica dei livelli, il software non sarà in grado di risolvere il problema e creerà artefatti e “fantasmi” visibili al 100%.
Ovviamente si potrebbe intervenire con procedure più complesse, ma bisogna sempre fare un bilancio fra costi (in termini di tempo) e benefici.

Così Roberto ed io abbiamo deciso di raccogliere la sfida.
Per parlarne, ci sarebbe piaciuto incontrarci alla pasticceria Guardia di via San Francesco, davanti a una cioccolata calda come la fanno a Torino, così densa che ci rimane il cucchiaino piantato in verticale e con la panna fresca servita a parte, così ognuno può dosarla a piacere nella tazza, utilizzando un delizioso cucchiaino fatto di cioccolato fondente.
Purtroppo i tempi sono quelli che sono, per cui siamo stati costretti a incontrarci via Google Meet, sorseggiando una triste e solitaria tazza di tè davanti allo schermo del PC.
Ma l’incontro (anche se a distanza) ha prodotto egualmente un’idea: ognuno dei due sarebbe intervenuto sulle immagini secondo il suo peculiare modo di lavorare, e alla fine avremmo confrontato i risultati, per mostrare ai lettori quante diverse possibilità sono nascoste in un “negativo digitale”.
Anzi, già che c’eravamo avremmo potuto trasformare la nostra sfida in un articolo, mostrando i risultati ottenuti.

Per quanto riguarda me, poiché in entrambe le immagini (anche quella con messa a fuoco all’infinito) lo sfondo era di fatto poco nitido a causa della foschia, ho deciso di rinunciare alla fusione e di lavorare solo sulla fotografia compositivamente più corretta: quella con messa a fuoco sul primo piano.

Utilizzando esclusivamente le funzionalità di Adobe Camera Raw, ho agito cercando di migliorare nitidezza e contrasto, ma soprattutto sono intervenuto selettivamente sui canali colore, per aggiungere mordente e “croccantezza” a un’immagine di per sé piuttosto slavata.
Il mio modo di procedere tende a conservare il più possibile i toni e le atmosfere della fotografia originale, pur migliorandone la godibilità da un punto di vista estetico.
In questo caso ho voluto mantenere, ed anzi accentuare, l’atmosfera cupa e temporalesca che caratterizzava la scena.

Roberto invece, da vero mago della postproduzione, agisce come un alchimista rinascimentale: rimescola e trasforma la materia bruta fino a creare qualcosa di mai visto prima; gioca con i pixel come un pittore giocherebbe con i tubetti di tempera e alla fine ottiene toni e colori che appartengono alla dimensione del sogno.
Per farlo, usa una tavolozza composita di software diversi ed estremamente specializzati, che conosce a fondo e che sa usare ai limiti delle loro possibilità.

Pubblichiamo una delle due immagini originali (quella con le erbe a fuoco) e le due interpretazioni, mia e di Roberto.

A dimostrazione che il RAW non è altro che un punto di partenza, un semplice insieme di informazioni, o meglio di numeri, che matematicamente (e da un certo punto di vista, matemagicamente) possono essere trasformati in un prodotto irripetibile.

Alla prossima.

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Immagine originale Postproduzione di Michele Vacchiano Postproduzione di Roberto Giachino