Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere più divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo

Dicembre 2016

135 contro 135 (ma i giovani vincono)

Il suicidio di Contax

Ai tempi della pellicola – come ben sa chi mi segue da anni – usavo, nel piccolo formato, reflex Contax equipaggiate con obiettivi Zeiss.
Nel 2000 Contax annunciò l’immissione sul mercato del suo primo corpo macchina digitale, innovativo non solo perché – finalmente – autofocus, ma soprattutto perché sarebbe stata la prima digitale a formato pieno.
Ovviamente gli utenti Contax sperarono di poter continuare a usare i loro vecchi (ma costosi) obiettivi sulle nuove macchine, così come facevano gli utenti di altre marche, e pazienza se si perdeva l’autofocus.
Ma quando – dopo due anni e diversi rinvii – le prime Contax N Digital comparvero sul mercato, ci si rese conto che questo non sarebbe avvenuto.
Con una politica che è poco definire suicida, la casa non adottò il tradizionale innesto Contax/Yashica, ma quello della N1 analogica: l’ultima creatura della nidiata, ultrasofisticata, autofocus ma praticamente nata morta.
I clienti, prevalentemente professionali, avrebbero dovuto acquistare a prezzi stratosferici un nuovo corredo di ottiche (oltretutto limitato) per equipaggiare apparecchi altrettanto costosi.
Ovviamente quasi nessuno lo fece, anche perché nel frattempo i diretti concorrenti (Canon e Nikon) avevano iniziato a offrire reflex altrettanto interessanti con un migliore rapporto qualità-prezzo.
Così l’operazione – inizialmente vòlta a proiettare Contax nel futuro della fotografia – non fece che assestare il colpo definitivo a un’azienda già agonizzante.
Yasuo Nishiguchi, presidente di Kyocera Corporation, annunciò nel 2005 l’imminente chiusura dello storico marchio.

Sant’Arràngiati è il più grande dei santi

Gli utilizzatori Contax avevano così due scelte: cambiare sistema e svendere al prezzo delle patate obiettivi che erano costati milioni di lire, oppure continuare a usarli (con limitazioni) adattandoli ai corpi macchina in commercio.
Gli obiettivi con attacco Contax/Yashica avevano un tiraggio di 45,5 millimetri, di poco superiore a quello delle Canon Eos (44 millimetri): di conseguenza era possibile usare gli obiettivi Zeiss sulle Canon digitali con un semplice anello adattatore, in grado di distanziare la flangia posteriore di quel poco che bastava a colmare la differenza.
Questa fu di fatto l’unica ragione che mi spinse a scegliere Canon, piuttosto che altre marche, quando passai definitivamente al digitale nel piccolo formato (nel medio formato stavo già usando il dorso V96C da 16 milioni di pixel sulla mia Hasselblad 503CW. Altri tempi).
Ovviamente la messa a fuoco era solo manuale (e non assistita) ed era necessario lavorare in stop-down, non potendo utilizzare l’automatismo del diaframma, ma per chi non si occupava di fotografia sportiva, street photography o reportage di guerra, queste limitazioni erano tutto sommato accettabili.
Così, per molti anni, utilizzai una 5D e una 1Ds Mark II equipaggiate con gli obiettivi del vecchio corredo Contax, risalenti alla seconda metà degli anni Ottanta.

Ritorno alla normalità

Quando poi Zeiss iniziò a produrre obiettivi con attacco ZE, finalmente studiati per le fotocamere Eos e in grado di interagire con esse, iniziai a sostituire gradualmente tutti gli obiettivi del corredo.
La decisione fu dettata non solo dalla comodità, ma anche da considerazioni qualitative: trent’anni di progresso tecnologico pesano non poco sulla progettazione ottica, e anche se i moderni Zeiss sono fisicamente realizzati in Giappone, non fanno certo rimpiangere gli illustri e blasonati (ma vecchi) obiettivi “made in Germany”.
So benissimo che quanto sto dicendo farà storcere il naso ai puristi, ma per me un obiettivo fotografico non è un oggetto di culto o un cimelio da collezione, ma uno strumento di lavoro, al quale chiedo risultati costanti, prevedibili, qualitativamente elevati e al passo con quanto di meglio il mercato richiede.
E come ho detto, trent’anni di evoluzione fanno la differenza, soprattutto quando si parla di prodotti al top di gamma.
L’ultimo obiettivo ad essere sostituito fu il 135 millimetri, una focale che – occupandomi in prevalenza di fotografia d’ambiente – non utilizzo spesso.

Made in Germany

Zeiss produceva, per la Contax, un Planar 135mm f/2 (quindi molto luminoso in rapporto alla focale).
Io lo acquistai, usato e “made in Germany”, verso la fine degli anni Ottanta.
Nel dicembre 1993 (ultima quotazione dell’Almanacco di Fotografare, prima che uscisse di produzione) l’obiettivo costava 3.820.000 lire: tenendo conto del cambio e degli adeguamenti Istat al costo della vita, circa tremila Euro di oggi.
Oltre che costoso, il Planar era grosso e pesante, ma la resa era eccezionale: ai diaframmi più aperti presentava un bokeh morbido e vellutato, ai diaframmi intermedi aumentavano nitidezza e incisione dei dettagli.
La figura 1, la figura 2 e la figura 3, sono state realizzate con questo obiettivo.
Zeiss produceva anche un Sonnar di pari focale, più chiuso di un diaframma (f/2,8) e più economico.
Lo schema ottico era semplice: cinque lenti in quattro gruppi, a garanzia della nitidezza e dell’assenza di riflessi parassiti.
Le prestazioni erano elevate, considerando il costo contenuto (almeno per gli standard Zeiss).

Nuova generazione

Recentemente Zeiss ha proposto un nuovo 135 millimetri f/2, basato sullo schema ottico Sonnar (non più Planar) e dotato di correzione apocromatica, dapprima nella serie Classic, poi – a partire dal 2016 – nella nuova serie Milvus.
Entrambe le versioni sono proposte con attacco ZE (per Canon) e ZF2 (per Nikon).
L’Apo-Sonnar è più grosso e pesante del vecchio Planar, e anche il costo si mantiene su livelli ragguardevoli: su Amazon viene venduto a 1.899 Euro.
Il Milvus ha dimensioni e prezzo ancora superiori (costa intorno ai 2.300 Euro) ed è destinato a soppiantare la versione Classic, già di fatto scomparsa dal sito ufficiale della Zeiss.
Rispetto ai Classic, i Milvus offrono una migliore tenuta a polvere e umidità, oltre alla funzione DeClick (nella versione ZF2 per Nikon) che facilita le riprese video.
Per il resto, le prestazioni dei due obiettivi sono del tutto sovrapponibili, come appare evidente confrontando i dati tecnici e le curve del rendimento.
Per questo nella tabella di confronto pubblicata più sotto saranno illustrate le caratteristiche dell’Apo-Sonnar serie Classic, quello effettivamente in mio possesso.

Facciamo parlare i grafici

Il vero confronto tra la vecchia e la nuova versione (che convincerà definitivamente i nostalgici del “made in Germany”) si può fare soltanto paragonando tra loro i dati strumentali, tratti dai data sheet forniti da Zeiss.
Nella prima colonna sono illustrate le prestazioni del vecchio Planar, nella seconda quelle dell’Apo-Sonnar serie Classic.
Come già detto, le prestazioni del Milvus sono identiche in termini di schema ottico, trasmissione spettrale, distorsione e curve MTF.

Denominazione

Carl Zeiss Planar 135mm f/2

Carl Zeiss Apo-Sonnar 135mm f/2

Famiglia

Planar

Sonnar (con correzione apocromatica)

Primo progetto

Paul Rudolph, 1896

Ludwig Bertele, 1929

Composizione

5 lenti in 5 gruppi

11 lenti in 8 gruppi

Schema ottico

Commento. Il Planar è in grado di generare immagini estremamente nitide anche con il sole diretto nell’obiettivo (figura 4), grazie al supercollaudato trattamento antiriflesso T* unito ad uno schema ottico semplice: come è noto, un ridotto numero di lenti rappresenta un vantaggio in queste situazioni, almeno in linea teorica. Il maggior numero di lenti all’interno del Sonnar garantisce una più elevata correzione delle aberrazioni ma nello stesso tempo aumenta le superfici aria-vetro e vetro-aria, col conseguente rischio di incrementare la quantità di luce riflessa all’interno del sistema. Tutto questo – ripeto – in teoria. In pratica, anche il trattamento T* si è evoluto (senza contare la progettazione delle lenti e del disegno ottico), migliorando l’indice di rifrazione e tenendo sotto controllo la quantità di luce riflessa. Pertanto, anche nelle riprese con il sole nell’inquadratura, l’obiettivo dovrebbe essere in grado di garantire non solo l’assenza di cerchietti colorati (immagini-fantasma del foro del diaframma), ma anche una buona nitidezza generale, senza flare o effetto-foschia. Sarà davvero così? La risposta è nella figura 5 e nella figura 6.

Scala diaframmi

f/2 – f/22

f/2 – f/22

Angolo di campo

18,5° (diagonale)

18,7° (diagonale)

Messa a fuoco

Da 1,5 metri a infinito

Da 0,8 metri a infinito

Commento. La distanza minima di messa a fuoco del Sonnar garantisce un campo di copertura di 145 x 96 millimetri, con un fattore di ingrandimento di 1:4. Fermo restando che gli obiettivi non specialistici lavorano piuttosto male a breve distanza (situazione in cui è sempre preferibile utilizzare un vero obiettivo macro), si tratta comunque di un fattore di ingrandimento davvero interessante per chi si trovi a dover affrontare una situazione di ripresa ravvicinata e voglia risolvere il problema con uno strumento di elevate prestazioni (figura 7).

Distanza focale posteriore

61,4 millimetri

44,0 millimetri

Peso

790 grammi

930 grammi

Illuminazione relativa

Spiegazione. La misura dell’illuminazione relativa descrive la caduta di luce dal centro verso i bordi, fisiologica per qualunque obiettivo. Sull’asse orizzontale è riportata l’altezza dell’immagine in millimetri, sull’asse verticalel’illuminazione relativa misurata a tutta apertura (linea continua) e a un diaframma intermedio (linea tratteggiata). Per l’Apo-Sonnar sono state prese in considerazione due diverse aperture intermedie (f/4 e f/4,8), il che spiega la doppia linea tratteggiata. La caduta di luce ai bordi dei due obiettivi è di fatto paragonabile, con una leggera prevalenza del Planar a tutta apertura e – al contrario – una migliore prestazione del Sonnar ai diaframmi intermedi.

Distorsione

Spiegazione. La distorsione misura l’incurvamento delle linee ai bordi dell’immagine, a mano a mano che ci si allontana dal centro. Un valore negativo indica una distorsione a barilotto (linee incurvate verso l’esterno); un valore positivo indica una distorsione a cuscinetto (linee incurvate verso l’interno). Entrambi gli obiettivi presentano un livello di distorsione molto contenuto, con una netta prevalenza del Sonnar rispetto al Planar.

Curve MTF a f/2

Spiegazione. Il fattore di trasferimento della modulazione (MTF) è riportato sull’asse verticale, mentre sull’asse orizzontale è riportata l’altezza dell’immagine in millimetri. Le curve più in alto illustrano la risposta dell’obiettivo alle basse frequenze spaziali (espresse in coppie di linee per millimetro); le curve più in basso la risposta alle alte frequenze spaziali. Per la precisione, le tre coppie di curve si riferiscono a misurazioni effettuate rispettivamente a 10, 20 e 40 coppie di linee per millimetro. La linea continua rappresenta l’orientamento sagittale, la linea tratteggiata l’orientamento tangenziale. Come si vede, la risposta del Sonnar appare decisamente migliore alle basse frequenze spaziali, per mantenersi poi costantemente al di sopra del Planar anche alle alte frequenze. Risultato: attenzione nei ritratti, perché non solo conterete tutti i capelli della modella, ma rischierete di esaltare anche i più piccoli difetti della pelle. La figura 8 è stata realizzata con l’Apo-Sonnar montato su una Canon Eos 5DS R. La figura 9 è l’ingrandimento al 100% di un’area dell’immagine precedente: la qualità del dettaglio è evidente, nonostante la riduzione per il web.

Curve MTF a f/5,6 (Planar) e a f/4 (Apo-Sonnar)

Spiegazione. Purtroppo il vecchio data sheet relativo al Planar e il nuovo relativo all’Apo-Sonnar non riportano la misurazione effettuata allo stesso valore di diaframma, quindi i dati non sono confrontabili se non per approssimazione. L’unica cosa che si può agevolmente notare è che il nuovo Apo-Sonnar, già a f/4, risulta capace di prestazioni più elevate di quelle che il Planar offriva a un diaframma più chiuso (e quindi potenzialmente più corretto).

Insomma, stiamo parlando di uno strumento di lavoro di tutto rispetto, in grado di fornire ottimi risultati già a tutta apertura e decisamente eccellente ai diaframmi intermedi.
Il suo utilizzo privilegiato è il ritratto, ma la modella deve essere preparata da una truccatrice di prim’ordine, dato il potere risolvente dell’obiettivo, capace di registrare con impietosa nitidezza ogni più piccola imperfezione della pelle.
Il suo uso nella fotografia d’ambiente è raccomandato quando si voglia ottenere una evidente compressione dei piani prospettici (figura 10), o quando si vogliano esaltare particolari architettonici o del paesaggio (figura 11).
Nella fotografia naturalistica, la focale di 135 millimetri può rivelarsi adatta a riprendere animali non troppo diffidenti, o abituati alla presenza dell’uomo perché ospitati in aree protette; oppure a lavorare da appostamenti fissi (figura 12), ma si rivela il più delle volte insufficiente nella ripresa di selvatici nostrani, normalmente poco assuefatti alla presenza umana.
L’ampia apertura relativa garantisce una correzione delle aberrazioni già a valori di diaframma piuttosto aperti (f/4), il che permette – soprattutto sul formato pieno – di giocare con la messa a fuoco selettiva (figura 13).
La messa a fuoco manuale (anche se assistita) lo rende invece meno adatto alla fotografia d’azione, soprattutto se il fotografo non possiede una pluridecennale esperienza nel focheggiare rapidamente, fidandosi del proprio occhio e della precisione della mano.

Alla prossima.

Gallery

Planar Planar Planar Planar Apo-Sonnar Apo-Sonnar Apo-Sonnar Apo-Sonnar Apo-Sonnar Apo-Sonnar Apo-Sonnar Apo-Sonnar Apo-Sonnar