Il "tip" del mese
Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere più divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo.
FEBBRAIO 2016
Se i fotografi facessero come i cuochi
Prima i format televisivi (che spesso si copiano l’un l’altro) sulla cucina e sui cuochi, poi il film Ratatouille, che ci ha svelato come un grande cuoco possa celarsi in chiunque, infine il grande successo dell’Expo di Milano, hanno suscitato in tutto il mondo industrializzato (ma soprattutto negli italiani, già culturalmente predisposti) la passione – che talvolta si deteriora in mania – per la cucina di qualità e la gastronomia.
Non è più possibile trascorrere una serata a cena con amici senza sentir qualcuno discettare sulle venature del capocollo, sui sentori di fragola del Verduno Pelaverga o sul metodo di impanatura delle capesante.
Nulla di male, ovviamente, ma se è vero – come diceva Napoleone – che tra il sublime e il ridicolo non c’è che un piccolo passo, allora stiamo attenti, perché spesso quel passo lo facciamo!
Dal ridicolo non sono immuni neppure certi chef “stellati”, che la recente moda ha strappato al buio delle dispense e scaraventato sotto i riflettori degli studi televisivi.
Qui molti di loro – dapprima intimiditi ma poi inorgogliti da tanta inattesa notorietà – dimenticano di essere cuochi (bravissimi, per carità, ma nei limiti della loro professione) e si improvvisano tuttologi, impartendo lezioni di vita, di morale e di politica a stupefatti spettatori che altro non vogliono sapere se non come grigliare alla perfezione un filet mignon, e per piacere si lasci stare il resto.
Ma ciò che più mi irrita è l’atteggiamento di sdegnosa arroganza e di aristocratico disprezzo che alcuni di loro ostentano verso (o meglio contro) chi non è alla loro altezza, segnatamente nei confronti di persone, per lo più giovani, che si rivolgono a loro per imparare e per migliorare le proprie competenze in materia.
Qui la spocchia di chi si crede ai vertici dell’arte si concretizza in insulti gratuiti, in espressioni che superano ampiamente i limiti del turpiloquio, in offese personali che spesso inducono all’esasperazione e al pianto la vittima designata.
D’accordo, loro sono pagati dalle reti televisive per fare spettacolo e ormai – in una società dove i rapporti interpersonali sono governati dalla superbia e dalla prevaricazione – senza violenza non si fa audience.
Ma che cosa accadrebbe se – invece che dalle reti televisive – questi guru del tegamino fossero pagati dalle persone che hanno il compito di istruire e giudicare?
Come lo sono i fotografi, ad esempio.
Quanti si iscriverebbero ai miei corsi se io strapazzassi gli allievi dicendo che le loro fotografie sono merda, che inquadrano come dei non vedenti o che un babbuino gestirebbe l’esposizione in modo meno casuale?
Quanti si rivolgerebbero a un fotografo di matrimonio che imponesse con arroganza il suo punto di vista, o dichiarasse che gli sposi non capiscono un c***, che l’organizzazione fa schifo, che la madre dello sposo è un cesso e che la sposa stessa è infotografabile perché truccata come una mignotta?
Magari è tutto vero, così come è vero che ci sono persone che pretendono di cucinare senza averne le capacità, ma i fotografi, così come i cuochi (e gli insegnanti, i politici, gli scrittori, i giornalisti, i conduttori televisivi) sono dei comunicatori, e il bravo comunicatore deve saper esprimere verità sgradevoli non solo evitando di offendere, ma anzi inducendo il destinatario del messaggio a ringraziarlo per la sua preziosa consulenza.
Non è ipocrisia, è diplomazia, un’arte che tra gli animali sociali (lupi e uomini compresi) riduce il rischio di continui conflitti e della conseguente estinzione della specie.
Chi si occupa di fotografia sa – e se non lo sa lo impara presto sulla sua pelle – che l’umiltà e l’attenzione al cliente sono le armi vincenti, mentre l’arroganza e la superbia rappresentano la strategia più efficace per farsi il vuoto intorno.
E quanto più si avvicina ai vertici dell’arte, tanto più capisce quanto sia importante non solo continuare a studiare, per approfondire e aggiornare senza sosta le proprie competenze, ma anche e soprattutto condividere conoscenze e metodi di lavoro, accompagnando e sostenendo chi impara con disponibilità e pazienza.
“So di non sapere” (come affermava quel sant’uomo di Socrate) è il mantra che l’uomo di cultura dovrebbe ripetersi ogni mattina, soprattutto in un’epoca in cui continui cambiamenti – non solo tecnologici – ci impongono di mettere in discussione le certezze acquisite e di superare sempre più in fretta i limiti del conosciuto.
Atteggiarsi a maestri indiscussi giudicando spazzatura il resto del mondo non è da saggi, è da ignoranti arricchiti.
Ho una proposta per le reti televisive: facciano un’indagine di customer satisfaction tra gli allievi degli chef superstellati e le persone che partecipano ai loro corsi, e poi li paghino in proporzione ai risultati del sondaggio.
Sono sicuro che diventeranno di colpo più educati. Quelli che non lo faranno, torneranno a spignattare nell’unto delle loro cucine.
Alla prossima.