Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

GIUGNO 2021

La Street Photography

Questo scritto costituisce l’ampliamento di un articolo già pubblicato sulla rivista “Nadir” alla pagina https://www.nadir.it/tecnica/STREET-PHOTOGRAPHY/fotografia-di-strada.htm e corredato con fotografie scattate da Rino Giardiello.

Premessa

La commedia umana che si dispiega negli spazi aperti è vista e colta come un evento pubblico, un aspetto della storia che non sempre – e non necessariamente – coinvolge eserciti e nazioni, ma che più modestamente e più nascostamente si compone di singole storie incontrate per caso, e per pochi istanti, nelle vie della città.
Questa è la fotografia di strada.
Al fotografo sono richieste doti non comuni: non soltanto saper guardare, saper cogliere l’attimo decisivo, saper prevedere lo svolgersi e il concludersi di un evento, ma anche e soprattutto saperlo fare con quella discrezione, quel rispetto e quella compassione che trasformeranno la sua opera nella testimonianza partecipe di un osservatore emotivamente coinvolto, anziché nella foto “rubata” di un paparazzo da strada.
Come disse Henri Cartier-Bresson, è necessario saper mettere sullo stesso piano mente, occhio e cuore.
Il tutto con rapidità e perfetta conoscenza del mezzo, senza dimenticare che la fotografia deve anche obbedire a canoni di perfezione estetica.

Facciamo chiarezza

Sgombriamo subito il campo da un diffuso malinteso: street photography, o fotografia di strada, non significa uscire di casa e scattare a casaccio in qualunque direzione, riprendendo tutto ciò che si presenta davanti all’obiettivo.
La fotografia non è riprodurre ciò che si vede, ma proporre allo spettatore la nostra personale interpretazione di un soggetto, o di un evento, per consentirgli di confrontarla con la sua esperienza e con i suoi vissuti e di interpretarla, infine, secondo le sue modalità di lettura.
La street photography, in particolare, è un genere ben preciso, che consiste nel riprendere momenti di vita quotidiana sottolineandone gli aspetti insoliti, sorprendenti, curiosi o ironici.
Per essere chiari e dire le cose come vanno dette: quando Cartier-Bresson fotografa l’uomo che salta la pozzanghera, o i due fidanzati al tavolino del bar che si baciano mentre il cagnolino li osserva incuriosito, allora fa della street photography.
Quando il principiante riprende uno sconosciuto che sale sul treno in una stazione gremita, magari inclinando l’inquadratura e tagliando i piedi, fa una foto da buttare.
Un inevitabile corollario di questo postulato è che la fotografia di strada, anche se realizzata in condizioni “di emergenza” (cioè in fretta e senza meditare troppo, per non perdere l’attimo decisivo) non è esentata dall’attenzione che – sempre e in ogni caso – deve essere dedicata all’inquadratura e alla composizione.
Per intenderci, la signora tagliata a metà che fa capolino dal bordo destro del fotogramma, la manica di un cappotto che spunta dal bordo sinistro, la testa sfocata della ragazza che chatta al cellulare in primo piano sono elementi che rendono la fotografia inefficace, anzi, decisamente sbagliata.
Ovvio, sono cose che capitano quando si lavora in fretta e non si ha il tempo per mettere insieme una composizione da manuale, ma non dimentichiamo che (esattamente come quando si lavora su pellicola e si stampa in camera oscura) l’immagine può – e in certi casi, deve – essere ritagliata in modo da eliminare i particolari superflui e concentrare l’attenzione sul soggetto.

L’esposizione e la messa a fuoco

Come il fotografo sportivo, anche il fotografo di strada non ha molto tempo per curare preventivamente l’esposizione che ritiene ideale.
Il consiglio è di lasciar fare alla fotocamera, impostando la lettura esposimetrica a matrice (o valutativa), oppure quella ponderata con prevalenza al centro; lavorare in ETTR (se si usa un sensore Bayer, ma non tutti i sensori si comportano allo stesso modo) e demandare alla postproduzione eventuali piccole correzioni.
Per quanto riguarda la messa a fuoco, esistono due scuole di pensiero.
La prima è quella dei fotografi che si affidano all’iperfocale.
Con un obiettivo moderatamente grandangolare (ad esempio un 35mm sul formato pieno, universalmente considerato la soluzione ideale per la street photography), un valore ISO abbastanza elevato (almeno 400) e un diaframma intermedio, è possibile regolare la messa a fuoco sull’iperfocale e dimenticarsene.
Tuttavia – contrariamente alla stupidaggine così spesso ripetuta da molti siti Internet (che si copiano l’un l’altro senza controllare quello che scrivono) – la tecnica dell’iperfocale non consente di avere “tutto a fuoco” dall’infinito alla metà della distanza iperfocale, ma la massima profondità di campo apparente consentita da quel diaframma e da quella focale.

“Apparente” perché il piano di messa a fuoco resta sempre e soltanto uno, e quanto più si ingrandisce il file (o il negativo), tanto più i punti lontani da quel piano appariranno sfocati.
Perciò, applicando meccanicamente la tecnica dell’iperfocale, rischiamo che il soggetto principale finisca fuori dal piano di messa a fuoco (magari di poco, ma ci finisca).
Problema irrilevante se si lavora su pellicola e si stampa in formato cartolina, ma drammatico nel digitale: il redattore della rivista o l’ispettore dell’agenzia di stock valuteranno la nostra immagine portandola al 100% sul monitor del PC, e se il soggetto è fuori dal piano di messa a fuoco rischiamo un’inappellabile bocciatura.
Intendiamoci: non è detto che la otteniamo, magari il redattore ci perdona (l’agenzia no) sapendo che la nostra foto sarà stampata a mezza pagina sulla rivista, ma sicuramente la rischiamo, e personalmente non voglio compromettere la mia credibilità professionale proponendo a un cliente un soggetto sfocato.
La seconda scuola di pensiero – quella che io caldeggio con vigore – raccomanda l’uso intelligente e il controllo totale del fuoco.
Nella fotografia di strada il soggetto principale finisce di solito al centro dell’inquadratura: per cui non resta altro da fare che impostare l’autofocus in modalità spot e in posizione centrale, inquadrare e scattare.
E quando il soggetto è perfettamente a fuoco, chissenefrega di tutto il resto.

ISO

Abbiamo detto poco sopra che il valore ISO deve essere “elevato”.
Il motivo è ovvio, dato che abbiamo bisogno di tempi rapidi, sia perché i soggetti di solito si muovono, sia perché lavoriamo a mano libera.
In quest’ottica, è molto importante scegliere gli strumenti giusti: per la street photography (come per lo sport e la fotografia di animali) io preferisco sensori caratterizzati da una risoluzione non eccessiva, e questo per due importanti motivi.
Il primo è rappresentato dal fatto che quanto più bassa è la densità del sensore (cioè il numero di pixel) tanto meno evidenti sono gli effetti di un eventuale micromosso: per una semplice questione di spostamento angolare, lo stesso angolo di deviazione coinvolgerà più pixel su un sensore più denso e meno pixel su un sensore meno denso.
Di conseguenza, su un sensore ad alta risoluzione il micromosso sarà più percepibile che su un sensore a bassa risoluzione.
Il secondo sta nel fatto che – generalmente – a un basso numero di pixel corrisponde una migliore risposta agli alti valori ISO, in termini di riduzione del rumore elettronico.
Per cui, prima di acquistare una macchina, occorre informarsi bene sulle sue prestazioni e sulle sue caratteristiche, privilegiando il modello che si adatta alle nostre specifiche esigenze (non quello che ci consiglia l’amico perché lui ce l’ha e si trova bene).
Ovviamente, i progressi della tecnologia sono galoppanti, per cui è possibile che tra cinque anni questo discorso appaia del tutto anacronistico: anch’io mi auguro un sensore da 200 milioni di pixel capace di lavorare a 25.000 ISO senza un filo di rumore elettronico; ma questo – almeno per adesso – non è disponibile in commercio.

Fake news, pregiudizi e idee sballate

Una fake news molto diffusa tra i dilettanti è che la fotografia può anche essere storta, mossa, sfocata o piena di cose che non c’entrano con il soggetto, ma “l’importante è il contenuto”.
Un simile modo di pensare mi ricorda la volpe di Esopo, che non potendo raggiungere l’uva si consolò dicendo “tanto era acerba”.
Che contenuto ci può essere in una fotografia tecnicamente o formalmente sbagliata?
Se anche ci fosse, come scovarlo in mezzo a una caterva di informazioni disturbanti e di elementi inutili?
Dire poi che una fotografia tecnicamente o compositivamente discutibile possa esprimere un messaggio e un contenuto, è un’affermazione pericolosa.
Oggi il mercato è saturo di milioni di miliardi di fotografie (solo su Instagram ne vengono caricate 3600 ogni secondo, almeno così ho letto su un sito di statistiche), e molte di queste sono belle fotografie.
Se io esprimo un contenuto con una fotografia brutta, il potenziale cliente sceglierà (perché la trova, è sicuro che la trova) la foto di un mio concorrente, che ha espresso i miei stessi contenuti ma con una qualità migliore.
I tempi in cui le riviste pubblicavano immagini sfocate e sgranate del mostro di Lochness (perché l’importante non era la qualità della foto, ma far vedere che il mostro c’era) sono finiti, e aggiungo “per fortuna”.
Per lo stesso motivo, evitiamo di tirare in ballo i maestri del passato, dicendo che anche loro realizzavano foto tecnicamente imperfette, che però sono entrate nella storia della fotografia.
I maestri del passato appartengono – appunto – al passato: loro lavoravano con altri mezzi, in un altro contesto culturale, con una diversa estetica e per un diverso mercato.
Chi insiste con simili affermazioni provi a confrontarsi con la perfezione formale di un maestro contemporaneo come Salgado, e poi ne riparliamo.
Le agenzie più serie non accettano una fotografia sbagliata, anche se il suo contenuto è interessante. E se anche l’accettassero, non lo farà il cliente, le cui possibilità di scelta sono ormai praticamente illimitate.
L’unica eccezione potrebbe essere costituita da un fatto di cronaca così unico e irripetibile, così istantaneo e immediato da consentire all’unico fotografo combinazione presente all’evento un unico scatto, e allora pazienza se è venuto male.
Ok, ci sta, ma quello scatto resterà sempre e comunque uno scatto sbagliato.
Per quanto riguarda il mosso, occorre distinguere tra il mosso casuale, dovuto all’uso a mano libera e a un tempo di otturazione insufficiente, e il “mosso efficace”.
Quest’ultimo obbedisce a una regola precisa, che vuole il soggetto mosso ma lo sfondo perfettamente fermo e nitido, in modo che lo spettatore capisca senza esitazione che quel mosso è voluto.
Il secondo è espressione di un’idea, il primo è un errore.

Macchine e obiettivi

Quali le fotocamere ideali per la street?
Un’ottima alternativa alla reflex è rappresentata dalle macchine a telemetro, o ancor più dalle mirrorless, meno appariscenti e soprattutto meno rumorose: lo scatto dell’otturatore, spesso, è controproducente.
A molti (soprattutto ai fotografi più anziani e più abituati al mirino tradizionale) può dare fastidio essere obbligati a osservare la scena inquadrata sul display posteriore: chi ha difetti di accomodazione (per esempio un presbite) può avere seri problemi.
Anche il mirino elettronico può rivelarsi scomodo per chi non vi è abituato: io per esempio trovo fastidiosa l’alternanza automatica tra display e mirino elettronico, così come il suo aspetto pixellato e il ritardo (presente in alcuni modelli) nell’adattarsi alle repentine variazioni di luminosità.
Anche se il 35mm sul formato pieno è considerato l’obiettivo ideale (circa 24mm sull’APS-C), spesso è più raccomandabile fotografare da lontano con un teleobiettivo, specialmente se non si vuole essere notati, oppure quando non si vuole interferire nello svolgimento dell’azione con la propria presenza.
Un obiettivo grandangolare, invece, permette di entrare nella scena come spettatore e interprete presente e partecipe: in questo modo il fotografo (e con lui lo spettatore) si sentirà parte dell’evento.
Due modi diversi, ma non necessariamente opposti, di interpretare il soggetto.

In posa

Dando per scontato le già citate limitazioni legali ed etiche riguardanti la fotografia di persone (chiaramente normate dalla Legge 633/1942 e s.m.i. oltre che dal Codice Civile), resta il fatto che, in presenza di un fotografo, i soggetti si possono comportare in due modi opposti: o manifestano chiaramente il desiderio di non essere ripresi, oppure tendono a “mettersi in posa”, perdendo spontaneità.
Nel primo caso non resta che rispettare la loro volontà.
Nel secondo, ci sono due modi per aggirare l’ostacolo.
Alcuni fotografi del passato, come Helen Lewitt, usavano aggiuntivi a specchio da montare sull’obiettivo: grazie allo specchio, angolato a 45 gradi, è possibile fotografare un soggetto posizionato lateralmente rispetto al fotografo.
Case illustri come Leica hanno avuto per molto tempo nel loro catalogo accessori del genere.
Oggi si trovano ancora, come accessori universali, con diverse dimensioni per adattarsi a varie misure di obiettivi.
È un espediente che personalmente non mi piace, ma riconosco che a volte possa rivelarsi utile, più che altro per evitare che il soggetto – consapevole della presenza del fotografo – si metta in posa e assuma atteggiamenti innaturali.
In realtà basta molto meno: se vediamo che una persona si accorge di essere inquadrata, non dobbiamo fare altro che spostare per un attimo l’inquadratura fingendo di riprendere altrove; poi, quando il soggetto si sarà rilassato e avrà ripreso le sue consuete attività, inquadriamo e scattiamo rapidamente.

Colore o bianco e nero?

La scelta non è casuale.
I fotoamatori che mi propongono due versioni della stessa fotografia chiedendomi “È migliore a colori o in bianco e nero?” non hanno capito la funzione narrativa delle due tecniche.
Non ha senso scattare a colori e dopo provare a trasformare la foto in bianco e nero per “vedere come viene”, magari allo scopo di aggiustare un’immagine banale e insignificante.

La fotografia in bianco e nero, eliminando il colore, costringe lo spettatore a concentrarsi sulle forme, sulle linee, sulla composizione pura e “ripulita” dalle facili suggestioni che possono essere indotte dai colori.
La fotografia a colori, al contrario, è d’obbligo quando il cromatismo e i contrasti cromatici – o la temperatura cromatica dell’ora, della stagione o dell’ambiente – rivestono una funzione narrativa, cioè hanno un significato.
Per questo, la fotografia in bianco e nero va “pensata” in bianco e nero già al momento dello scatto. Occorre visualizzare l’immagine finale e pensare a come la si dovrà trattare, in postproduzione, per trasformare in rapporti tonali i rapporti cromatici che l’occhio percepisce.
Se si utilizza un sensore Bayer, è consigliabile fotografare a colori per poi effettuare la trasformazione in bianco e nero in fase di trattamento, allo scopo di utilizzare i canali colore come “filtri” capaci di trasformare, esaltandoli, i contrasti cromatici in contrasti tonali.
Esattamente come si fa quando si lavora su pellicola pancromatica in bianco e nero e si utilizzano i filtri colorati per selezionare accuratamente le lunghezze d’onda che andranno a impressionare l’emulsione.

Prima di tutto, saper vedere

Ci vogliono esperienza e allenamento per cogliere momenti di vita quotidiana, situazioni comiche, drammatiche o comunque interessanti quando si cammina per strada.
Prima di fotografare occorre guardare, e allora – forse per la prima volta – si noteranno situazioni che fino a quel momento erano sfuggite.
Ma non è solo questo.
Ci vuole – oltre a un grande spirito di osservazione – la capacità di prendere rapidamente una decisione: non basta vedere, inquadrare e scattare; bisogna saper scattare al momento giusto, il famoso “attimo decisivo” prima del quale e dopo il quale la foto non avrebbe significato.
Questo implica, più che per altri generi fotografici, la perfetta conoscenza dei propri strumenti di lavoro, che devono diventare “trasparenti”, come un’estensione dei sensi.
Chi si chiede come impostare il diaframma o come regolare un flash ha già perso la sua occasione.
Per questo mi sento di dare un consiglio a chi inizia, e perciò non ha ancora acquisito l’esperienza e la rapidità necessarie.
Scegliete un angolo suggestivo della città, frequentato da passanti: una piazza importante, una via dello shopping, un giardino pubblico… insomma, un luogo dove sapete che accade spesso qualcosa.
Poi preparatevi con calma: studiate l’esposizione e la luce, scegliete la focale più adatta.
Infine aspettate che un soggetto interessante passi nella la vostra area di interesse e scattate.
Ci vuole pazienza, ma è un po’ come la caccia fotografica da appostamento: mettersi tranquilli all’interno del capanno e aspettare che il cerbiatto si faccia vivo.
Con il dovuto allenamento (allenamento a guardare, ma anche a usare con sicurezza la propria attrezzatura) non sarà difficile portare a casa immagini suggestive e originali.
Senza mai dimenticare che la curiosità deve sempre essere temperata dalla partecipazione; il desiderio di documentare dalla compassione; la voglia di condividere una fotografia ben fatta dalla solidarietà che ci lega a ogni altro essere umano.

Finestra sul cortile

Ricordate quel celebre film di Alfred Hitchcock, La finestra sul cortile (Rear Window, 1954)?
Un fotoreporter di successo (interpretato da James Stewart) è costretto su una sedia a rotelle a causa di una gamba rotta.
Per passare il tempo, spia i vicini di casa col binocolo, per poi fotografarli con il teleobiettivo.
Le persone che stanno con lui lo rimproverano per questa sua indebita intromissione nelle vicende altrui, ma sarà proprio questo suo gioco che gli permetterà di intraprendere un’indagine dai risvolti imprevisti.
Durante la recente pandemia, che ci ha costretti a rimanere in casa o comunque ci ha impedito di muoverci liberamente come prima, anche noi ci siamo sentiti come James Stewart.
Ma non solo: ci sono molti eventi che a volte ci costringono a non uscire di casa: il freddo dell’inverno, il maltempo, un semplice raffreddore…
Ma questo non significa che dobbiamo rinunciare a fotografare.
Sbirciare ciò che avviene sul balcone di fronte, o nel cortile del proprio condominio, può a buon diritto rientrare nell’ambito della fotografia di strada, dato che si tratta, ancora una volta, di cogliere persone intente nelle loro attività quotidiane, magari con un pizzico di ironia o di disincantata partecipazione emotiva.
La tenerezza di due anziani che chiacchierano amabilmente cercando di sfuggire alla calura estiva; una ragazza che legge prendendo la tintarella sul balcone di casa; un muratore acrobata o un antennista che fuma una sigaretta tranquillamente seduto sul colmo di un tetto: tutte occasioni facili e a portata di mano, ma spesso in grado di raccontare un pezzo di vita, illustrandone gli aspetti più insoliti, commoventi o singolari.

Testimoni o paparazzi?

I maestri del passato vengono tirati in ballo anche quando si parla di fotografare le persone.
Quando dico che per pubblicare la fotografia di una persona riconoscibile come soggetto dell’immagine ci vuole la liberatoria, molti si arrabbiano come se fossi io ad averlo deciso, e non la legge.
“Ma come, e allora tutti i grandi del passato, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, che fotografavano persone senza ovviamente chiedere il loro permesso, li spazziamo via tutti?”.
Cari fotoamatori che mi scrivete in media una volta al giorno per rivendicare il diritto alla fotografia selvaggia, è inutile che tiriate in ballo Weegee, Werner Bishof o Eve Arnold, dicendo che loro facevano fotografie “rubate”, e allora perché non possiamo farle noi.
I personaggi che ho citato – esattamente come i fotoreporter contemporanei – erano, e sono, professionisti che lavoravano, e lavorano, per agenzie e testate giornalistiche e io spiego sempre – molto chiaramente – che, per legge, la liberatoria non è necessaria quando la fotografia è pubblicata con finalità di informazione o documentazione.
Quindi il fotoreporter, il giornalista, il professionista che lavorano per un giornale o un’agenzia hanno tutto il diritto di pubblicare le loro fotografie (purché scattate con finalità informative o di documentazione) senza chiedere niente a nessuno.
E così i professionisti che perseguono finalità educative, informative o didattiche.
Diverso è il discorso per il dilettante, che non persegue finalità informative e all’attività del quale la legge di tutti i paesi civili pone – giustamente – dei limiti.
La legge, non io.
Sia chiaro: il dilettante può fotografare ciò che vuole: i vincoli di legge riguardano la pubblicazione, che significa, in parole semplici, far vedere la foto ad altri.
Poi, sul fotografare ciò che si vuole si potrebbe aprire un’ulteriore discussione, basata non tanto sugli articoli di legge quanto su considerazioni etiche.
Ma qui, beh, ognuno decida come comportarsi: personalmente non nutro una grande stima per i principianti che si improvvisano paparazzi, ma questo è un problema mio.
Il mondo è grande, c’è spazio anche per loro.
Alla prossima.

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