Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

SETTEMBRE 2021

F-stop e T-stop: gemelli diversi

Obiettivo progettato per il video

Mi scrivono: perché gli obiettivi progettati per il video hanno la scala dei diaframmi in valori T-stop invece che F-stop?
Che cosa vuol dire T-stop?
Qual è la differenza, e quale importanza può avere per il fotografo?
Vediamo.
Negli obiettivi progettati per la fotografia, l’apertura relativa (cioè il valore F-stop) è il rapporto tra la lunghezza focale dell’obiettivo e l’apertura effettiva, secondo l’equazione
N = f/D
dove “N” è il valore del diaframma, “f” la lunghezza focale dell’obiettivo e “D” il diametro del foro attraverso cui passa la luce.
Se un obiettivo da 50mm ha un diametro di apertura di 25mm, l’apertura relativa sarà
N = f/D = 50/25 = 2.
La notazione f/2 indica appunto l’apertura relativa, cioè il valore di diaframma.
L’apertura relativa massima determina la “luminosità” dell’obiettivo: un obiettivo con apertura relativa massima pari a f/2 è più luminoso di un obiettivo f/2,8.
Quando si chiude il diaframma, il diametro del foro attraverso il quale passa la luce si riduce, e in questo modo il risultato del rapporto cambia.
Per convenzione internazionale (Congresso di Liegi, 1905), i valori di diaframma partono dall’apertura relativa massima (diaframma tutto aperto) e aumentano secondo una progressione geometrica in base alla radice quadrata di 2 (cioè 1,4 più una serie infinita di decimali).
In questo modo, assumendo un’apertura relativa massima (del tutto teorica) pari a f/1 (diametro dell’apertura effettiva pari alla lunghezza focale) e moltiplicando ogni valore per √2, avremo
1 – 1,4 – 2 – 2,8 – 4 – 5,6 – 8 – 11 – 16 – 22 – 32 – 45 – 64 ecc.
Ovviamente quasi nessun obiettivo ha un’apertura relativa massima pari a f/1 e solo pochi obiettivi destinati alla fotografia in grande formato chiudono a f/64 o a valori superiori.
In questo modo, a ogni scatto del diaframma la quantità di luce si dimezza: a f/11 entra la metà della luce che entra a f/8.
A ogni raddoppio del valore di diaframma, invece, la quantità di luce si riduce a un quarto: a f/16 entra un quarto della luce che entra a f/8.
Questo valore è un valore teorico, calcolato matematicamente, ma l’equazione su cui si basa non tiene conto dell’effettiva quantità di luce che arriva alla superficie di acquisizione (pellicola o sensore), dopo essere stata rifratta dalle lenti dell’obiettivo e avere eventualmente subito fenomeni di riflessione in grado di disperdere parte dell’energia luminosa.
In fotografia questo non rappresenta un problema: gli scarti sono minimi (si tratta generalmente di frazioni inferiori a un terzo di stop) e la differenza di luminosità tra il valore teorico dichiarato e il valore reale non viene avvertita dal fotografo, che comunque può intervenire in fase di trattamento per correggere l’esposizione.
Anche l’esposimetro registra le variazioni di luminosità su intervalli di un terzo di stop, approssimando per eccesso o per difetto le differenze inferiori a questo valore.
Nel video, invece, una differenza anche minima di luminosità può provocare non pochi problemi, dato che non stiamo parlando di immagini isolate, ma di una sequenza di fotogrammi (normalmente 25 al secondo) all’interno della quale è obbligatorio mantenere una luminosità costante.
Bisogna tenere conto del fatto che in fotografia una variazione anche notevole del tempo di otturazione dovuta alle variazioni dell’apertura relativa non provoca cambiamenti di rilievo nella percezione dell’immagine (eccettuati gli effetti di mosso dovuti a un tempo di otturazione inadeguato, ma questa è un’altra questione).
Il videomaker non può contare sulla stessa flessibilità: a seconda di quello che sarà il frame rate del video finale, la possibilità di giocare con i tempi di otturazione è molto più limitata, e una variazione anche piccola potrebbe avere conseguenze visibili sul risultato.
Inoltre, è importante essere sicuri di mantenere gli stessi valori di luminosità ogni volta che si sostituisce l’obiettivo, e non è detto che un 35mm diaframmato a f/11 trasmetta la stessa quantità di luce di un 150mm diaframmato allo stesso valore.
In teoria dovrebbe farlo, in pratica non lo fa proprio a causa delle dispersioni di cui abbiamo già parlato.
Queste piccole ma avvertibili differenze richiederebbero interventi piuttosto complessi – e quindi costosi – in fase di postproduzione.
Per questo negli obiettivi cinematografici si usa il coefficiente T-stop (“T” sta per “transmission”), che indica la reale quantità di luce che – dopo avere superato il diaframma e i diversi elementi del sistema ottico – raggiunge la superficie di acquisizione.
Per calcolarlo, si divide il valore F-stop per la radice quadrata della trasmittanza dell’obiettivo (la trasmittanza è il rapporto tra l’intensità del flusso radiante trasmesso e l’intensità del flusso radiante incidente).
Il valore T-stop indica di fatto la reale quantità di luce che raggiunge il sensore: pertanto due obiettivi diversi chiusi allo stesso valore T-stop garantiranno un’esposizione uniforme, cosa che – come abbiamo visto – non si può garantire per due obiettivi chiusi allo stesso valore F-stop.
Perché anche in fotografia non si usano i T-stop?
Perché calcolare la trasmittanza e testare la quantità di luce che colpisce effettivamente il sensore è complesso e costoso e in fotografia non ne vale la pena dato che – come abbiamo già detto – gli scarti sono talmente minimi da non risultare significativi ai fini dell’esposizione; senza contare le possibilità di correzione in fase di trattamento, dato che si agisce su una singola immagine alla volta.

Alla prossima.