Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

APRILE 2019

Niente scuse!

Dizionarietto non esaustivo dei pretesti che i fotografi accampano per giustificare un'immagine sbagliata.

Cari fotografi, diciamoci la verità: chi di noi non ha cercato di giustificare un proprio errore sciorinando motivazioni di varia natura?
Nel tentativo di spacciare per buona una fotografia sbagliata, accampiamo le scuse più varie e talvolta più incredibili.
Raccontiamo delle fatiche sostenute, del freddo sopportato, delle montagne scalate per ottenere quell’unico scatto che sì, è vero, contiene degli errori, ma è talmente unico e irripetibile da racchiudere in sé stesso un valore intrinseco ineguagliabile.
Bene, ecco la cattiva notizia: che noi abbiamo faticato, sofferto, rischiato la vita per portare a casa quella fotografia, o che più banalmente non abbiamo potuto inquadrare in modo diverso, non interessa a nessuno.
Il cliente paga per avere una fotografia tecnicamente e formalmente corretta, non per ascoltare chiacchiere.
E – per favore – smettiamola di tirare in ballo Robert Capa o Cartier-Bresson, che realizzavano capolavori anche se imperfetti: loro appartenevano a un’altra epoca, con altri mezzi, una diversa estetica e una differente clientela.
Se volete sapere come si ottiene una composizione perfetta (e tecnicamente ineccepibile) anche in condizioni difficili, guardate le immagini di Salgado, giusto per citarne uno.
Quando sottoponete i vostri lavori a una lettura portfolio, ciò che più irrita chi deve giudicarvi è sentir parlare delle difficoltà che avete avuto nel realizzare lo scatto.
Quindi, proprio per farvi un favore, ecco le frasi che dovete assolutamente evitare.

Le scuse sull'inquadratura

Non potevo spostarmi
Questa affermazione serve a giustificare le inquadrature sbagliate.
Per capirci: i campanili senza guglia, le persone coi piedi tagliati, i particolari architettonici inquadrati di sghimbescio, i palazzi con le verticali convergenti, i bambini schiacciati a terra da un’inquadratura dall’alto; o al contrario scene dove compare troppa roba che non c’entra nulla e che andrebbe eliminata.
In quest’ultimo caso la soluzione è semplice e si chiama crop, o ritaglio.
Il vostro sensore ha pochi pixel e se ritagliaste otterreste un francobollo invendibile? Peggio per voi: procuratevi un sensore di dimensioni congrue e poi ritornate.
Nel primo caso, invece, non c’è rimedio: i piedi tagliati non si possono ricostruire con Photoshop (o meglio, si potrebbe anche, ma quelli che lo sanno fare sono pochi, e comunque sarebbe un falso clamoroso).
Le verticali convergenti si possono correggere in postproduzione, ma solo in percentuale minima, perché un intervento del genere (oltre ad alterare le proporzioni del soggetto) deteriora irrimediabilmente la qualità del file.
Quindi non resta che imparare a inquadrare, anche quando il punto di ripresa è obbligato.
Ma soprattutto bisogna imparare a decidere che cosa si vuole fotografare: se il campanile non ci sta tutto allora non lo si fotografa, punto e basta; se la facciata non si può riprendere se non inclinando la macchina verso l’alto, allora si cambia inquadratura, magari ci si concentra sui particolari, evitando di scattare purchessia e di portare a casa un’immagine da buttare.
Eccezione: se non potete evitare le verticali convergenti, allora potete esagerarle, ma attenzione, anche questo richiede conoscenze ben precise e una procedura corretta (guardate qui), altrimenti la vostra non sarà una fotografia creativa, ma un abbozzo raffazzonato e stortignaccolo.
Ancora una precisazione sulle verticali inclinate, che personalmente mi provocano una crisi di pianto ogni volta che le vedo (tranne quando si capisce chiaramente che sono volute): è mai possibile che non abbiate ancora imparato a usare l’orizzonte artificiale, o bolla elettronica, o chiamatela come accidenti volete, che è presente ormai in quasi tutte le macchine, comprese quelle da 200 euro?
Per non parlare della griglia, visualizzabile ormai nel mirino di un gran numero di fotocamere?
E se proprio la vostra macchina non ha nulla di tutto questo (ma ce l’ha, ce l’ha, il problema è che non leggete mai il manuale d’uso), esistono soluzioni semplici ed economiche, come le livelle a bolla a tre vie, che si trovano su Amazon a meno di dieci euro, spedizione gratuita se siete clienti Prime.
Sempre ricordando, come abbiamo già detto, che se proprio una linea storta scappa, è rimediabile con due secondi di attenzione in post.
Ecco perché alle linee storte non ci sono scuse: perché dimostrano che al proprio lavoro non è stata dedicata la necessaria attenzione, cioè, non è stato dato valore.
E se non diamo valore a quello che facciamo, forse quell’attività specifica non è adatta a noi.

Alternativa alla precedente: avevo poco spazio e il mio obiettivo non era abbastanza grandangolare
…e così ho inquadrato il portone di traverso, il bassorilievo a metà, l’affresco da sotto in su.
Ma i particolari architettonici (porte, finestre, maniglie, decorazioni, affreschi, bassorilievi) vanno sempre inquadrati per intero, e soprattutto frontalmente, perché è così che il loro artefice (artista, architetto ecc.) ha pensato che dovessero essere guardati (a meno che non si tratti di anamorfismi).
Per cui, se il vostro obiettivo non è abbastanza grandangolare o se non c’è abbastanza spazio per arretrare, i casi sono due: o si fotografa il soggetto “a pezzi” e poi si uniscono le fotografie con la tecnica dello stitching, oppure quella fotografia non si fa.
Tertium non datur.

Avevo fretta
Altra affermazione che giustifica gli errori di messa a fuoco, le inquadrature storte, le linee pendenti.
Ma come disse Rino Giardiello, architetto, fotografo e direttore di Nadir, “Anche se mangi di fretta non ti infili la forchetta nell’occhio”, cioè, se sai fare bene una cosa la fai in modo istintivo e senza sbagliare.
Quindi la prima cosa da fare è curare l’inquadratura in modo attento, consapevole, meticoloso e oserei dire maniacale.
Le prime volte ci penserete, ma poi, quando avrete scattato migliaia di fotografie, diventerà istintivo e lo farete senza pensarci troppo.
O quasi.

Le scuse sulla composizione

L’importante è il soggetto
Due ragazze chiacchierano in piazza, sullo sfondo di palazzi barocchi.
Ma ecco che il muso di un’auto si affaccia dietro ai soggetti, oppure una persona fa capolino giusto sul bordo del fotogramma, inquadrata per metà, o peggio ancora si intravede una manica, l’angolo di un vestito, un piede, un cane che fa pipì contro un lampione…
“L’importante è il soggetto, il resto è irrilevante” si giustifica il fotografo.
E invece no, anzi, l’attenzione dello spettatore rischia di essere non solo distratta, ma decisamente sviata da quegli elementi inutili e disturbanti.
Se è vero che la fotografia è una forma di comunicazione, allora siamo autorizzati a chiederci se quelle figure mezze inquadrate e mezze no abbiano un senso, un significato, uno scopo.
Ovviamente non ce l’hanno, e allora perché sono lì?
La loro presenza è puro rumore (in semiologia, il “rumore” è tutto ciò che non c’entra con il contenuto del messaggio e che quindi lo disturba, lo rende meno comprensibile).
La fotografia “parla” tanto più chiaramente quanto più è pulita, cioè priva di elementi di disturbo (rumore, appunto).
Ma come fare a eliminare elementi di disturbo che “sono lì” e spesso non si possono evitare?
Prima di tutto scegliendo l’inquadratura giusta: a volte basta spostarsi di poco per far sì che il palo della luce non sembri spuntare dal cranio del soggetto.
Poi scegliendo l’obiettivo giusto: il grandangolo è difficile da usare, perché “tira dentro” un sacco di roba; meglio allora un teleobiettivo moderato, che isola i soggetti, sfoca lo sfondo ed elimina gli elementi inutili.
Non si insisterà mai abbastanza sul concetto che il soggetto principale deve riempire il fotogramma, per concentrare su di sé tutta la forza della comunicazione.
Come affermava Robert Capa: “Se la foto non è buona vuol dire che non eri abbastanza vicino”.
Il terzo, potente strumento è la luce giusta: un’illuminazione che metta in risalto il soggetto e lasci in ombra tutto il resto è quanto vi sia di meglio per far capire allo spettatore che cosa deve guardare.
La direzione, la quantità e la qualità (cioè il colore dominante) della luce sono strumenti che permettono al fotografo di raccontare il soggetto nel modo voluto.
Molti dimenticano che “fotografare” significa proprio “scrivere con la luce”, e scattano in modo casuale, senza chiedersi dov’è il sole, dove andranno a cadere le ombre, come apparirebbe il soggetto se fosse illuminato in modo diverso.

Dovevo far vedere il contesto
“Vieni a casa mia che ti faccio vedere le foto delle vacanze”.
Di fronte a una richiesta del genere normalmente marco visita, inventando pretesti tragici.
Preferisco dire una bugia piuttosto che assistere a un’interminabile proiezione di foto storte, sfocate, sovraesposte, prive di una qualunque selezione, magari accompagnate da una musichetta insulsa o da canzonette commerciali che nulla hanno a che fare con il contesto.
L’errore più comune che i principianti commettono quando si dedicano alla fotografia d’ambiente (espressione che include la fotografia di paesaggio, la fotografia urbanistica e architettonica, la fotografia di ambiente umano, compresa la cosiddetta street photography) consiste nella preponderanza dello sfondo rispetto al soggetto principale.
Soggetti lontani e quasi indistinguibili persi in uno sfondo inutilmente vasto perché – dichiarano gli autori – bisogna far vedere il contesto, l’ambiente, “i bei posti che abbiamo visitato”.
Non è così.
Riempire il fotogramma con l’immagine del soggetto è una delle poche regole davvero inderogabili della fotografia.
L’ambiente conta, certo, ma ne basta poco, giusto quel poco che serve a contestualizzare il soggetto e a raccontarne la storia.
L’eccesso di spazio inutile è – ancora una volta – rumore.

Pioveva (o, in alternativa, c’era nebbia, nevicava, c’era troppa gente, non c’era nessuno, c’era il sole...)
“Devi fare un reportage in Abruzzo.”
“Okay, quando devo partire?”
“Domani. Hai due giorni di tempo perché andiamo in stampa mercoledì.”
Il dialogo è la trascrizione fedele di un colloquio telefonico intercorso tra me e il direttore di una rivista diversi anni fa.
Ma potrei citarne altri, tutti dello stesso tenore.
I costi aumentano, i guadagni diminuiscono, bisogna fare in fretta e non si può spendere tanto.
Per cui il cliente (una rivista, nel caso che abbiamo ipotizzato) avverte il fotografo con scarsissimo anticipo e gli dà poco tempo per realizzare il lavoro.
Lavoro che bisogna portare a casa comunque, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche e ambientali, perché se la rivista va in stampa domani, o dopodomani al massimo, non si può aspettare che tutto sia perfetto come lo si vorrebbe.
Piove? Non importa, il fotografo creativo sa mettere in risalto l’ambiente anche quando piove, sfruttando anzi la pioggia per realizzare scatti originali: i riflessi delle luci sul selciato bagnato, un lampione che si specchia in una pozzanghera, le foglie degli alberi imperlate di goccioline, i minuscoli cerchietti creati dalle gocce di pioggia che cadono nell’acqua di un lago, le gocce stesse, messe a fuoco con precisione sul parabrezza di un’auto…
Se la folla disturba la visione del soggetto che vorremmo fotografare, allora la folla stessa può diventare il soggetto della composizione: non è detto che il titolo della fotografia debba essere “La facciata della Sagrada Familia a Barcellona”; potrebbe anche essere “Una folla di turisti si accalca all’ingresso della Sagrada Familia a Barcellona”.
Se la facciata di un palazzo appare infotografabile perché il sole non è nella posizione giusta (la classica ombra obliqua che taglia a metà la facciata), allora si torna in un altro momento, oppure – se questo non è possibile – ci si concentra sui particolari architettonici, che spesso sanno descrivere lo stile dell’edificio più di una veduta d’insieme.
Insomma, si può raccontare un luogo indipendentemente dalle condizioni ambientali, che anzi vanno sfruttate e valorizzate allo scopo di realizzare un reportage unico e originale.

Le scuse sugli errori tecnici

La foto è un po’ mossa perché non avevo il cavalletto
Quando sento questa scusa mi incazzo.
Prima di tutto, perché non l’avevi?
Oggi esistono cavalletti leggeri che occupano pochissimo spazio, si legano tranquillamente allo zaino o alla borsa fotografica e funzionano benissimo anche se la macchina è pesante, basta assicurarsi che siano ben saldi sul terreno, usare il sollevamento preventivo dello specchio e l’autoscatto per minimizzare le vibrazioni.
Ammettiamo che in quel luogo specifico il cavalletto non si potesse usare.
Okay, ma questo non giustifica una foto mossa.
Cercate tutti gli appoggi che l’ambiente mette a disposizione.
Se l’appoggio è in una posizione tale da non permettere l’inquadratura che avevate in mente, siate creativi e scegliete un’inquadratura diversa (una qualunque fra tutte quelle che il nuovo punto di appoggio consente).
Se non esistono appoggi utilizzabili (ma a me è capitato solo nel deserto dell’Arizona, pieno di cespugli rinsecchiti e formiche rosse ma senza nemmeno un sasso a cui appoggiarsi), allora rinunciate a scattare, perché – anche se vi illudete di avere la mano ferma – la vostra fotografia farà schifo.
In base a una vecchia regola nata ai tempi della pellicola e ancora sostenuta da molti, il tempo “di sicurezza” per evitare il micromosso coinciderebbe con il reciproco della lunghezza focale dell’obiettivo in uso.
Tradotto in linguaggio terrestre, significa che con un obiettivo da 50 millimetri dovrei essere tranquillo scattando a un cinquantesimo di secondo, circa un trentesimo con un 28 millimetri e un centesimo con un 100 millimetri.
Ok, ecco la cattiva notizia: non esiste un tempo di sicurezza.
La percezione di nitidezza, infatti, dipende da quanto si ingrandisce l’immagine.
Ora, i clienti esperti (agenzie internazionali, art director di riviste di alto livello) esaminano l’immagine visualizzandola al 100% su monitor professionali: se vedono il micromosso, l’immagine viene quasi sempre scartata.
Ho scritto “quasi sempre” perché se la fotografia è destinata a essere stampata in piccole dimensioni sulla pagina di una rivista, potrebbe anche essere accettata (come si è detto, la percezione di nitidezza dipende dall’ingrandimento in stampa), ma siete davvero convinti che sia opportuno affidare la vostra credibilità professionale a una fotografia con dei difetti, anche se questi vengono nascosti da una riproduzione in formato ridotto?
Inoltre, va detto che quanto più crescono le dimensioni e – soprattutto – la densità del sensore, tanto più il micromosso rischia di evidenziarsi.
Per questo motivo, è indispensabile prestare tanta più attenzione quanti più fotodiodi (o pixel) sono presenti sul sensore.
Credetemi: io ho ottenuto immagini mosse anche lavorando a un duecentesimo di secondo.
E allora, vi decidete o no a comprare sto *!#@?!* di cavalletto?

Il mio zoom è fatto così
La scusa è riferita alla distorsione delle linee marginali: in pratica, quando le colonne della facciata del Partenone si incurvano all’esterno come un palloncino in procinto di esplodere.
Il fenomeno dimostra due cose.
La prima è che si è utilizzato un obiettivo economico, di solito uno zoom grandangolare entry-level; la seconda è che non si è posta la dovuta attenzione al trattamento: la distorsione (a barilotto o a cuscinetto) può essere tranquillamente corretta in postproduzione, quasi sempre in modo automatico, semplicemente abilitando la funzione di riconoscimento dell’ottica.
Ma poiché la correzione della distorsione in postproduzione provoca, in ogni caso, un deterioramento del file, la soluzione migliore è far sì che la distorsione non si verifichi, utilizzando principalmente obiettivi adeguati.
Quindi, soprattutto se ci si dedica con una certa assiduità alla fotografia di architettura, bisogna accettare l’idea di rompere il porcellino per procurarsi un grandangolo serio, preferibilmente a focale fissa, la cui distorsione rimanga contenuta entro limiti molto ristretti (per individuare il modello giusto non resta che consultare i dati strumentali forniti dal fabbricante o riportati negli ormai numerosissimi test pubblicati in rete).

Ero controluce
La frase viene usata per giustificare il flare, le perdite di nitidezza, gli aloni colorati e le immagini-fantasma del foro del diaframma che si generano fotografando controluce.
In realtà questi difetti non sono obbligatori e ineludibili, ma derivano dall’utilizzo di obiettivi inadeguati, o perché dotati di molte lenti (zoom), che amplificano e moltiplicano i fenomeni riflessivi; o perché sottoposti a un trattamento antiriflesso insufficiente; o ancora perché privi di paraluce o (mania frequente fra i dilettanti) equipaggiati con inutili e perniciosi filtri, spesso sporchi e impolverati, oltre che economici, e quindi di qualità scadente.
Chi dice che i circoletti luminosi allineati lungo un raggio di luce rappresentano un gradevole motivo estetico non ha mai provato a vendere simili immagini a un cliente davvero esigente e competente.
È vero che alcune di queste immagini hanno un loro mercato, ma ce l’hanno quando si tratta di fotografie in cui l’effetto è accuratamente programmato, studiato e ricercato (e in questo caso si vede).
Quando invece si tratta di un errore dovuto a strumenti inadeguati (e anche in questo caso si vede) la fotografia verrà rifiutata.
Quindi non diciamo che le macchioline colorate o i poligoni luminosi “fanno motivo”: è un’autogiustificazione ridicola e penosa.
Come quella della volpe nella celebre favola di Esopo, che non potendo raggiungere il grappolo d’uva si consolava dicendo “tanto era acerba”.

Le scuse sull'attrezzatura

Non avevo l’obiettivo giusto
Non esiste l’obiettivo sbagliato; esiste soltanto il fotografo che non sa utilizzare lo strumento che in quel momento ha a disposizione.
Se l’obiettivo è troppo grandangolare e comprende un angolo di visuale eccessivo, avvicinatevi al soggetto o – se non lo potete fare – ritagliate l’immagine in postproduzione.
Se la focale è troppo lunga cambiate punto di vista, allontanatevi. Se non lo potete fare, fotografate qualcos’altro che possa essere compreso all’interno dell’angolo di campo dell’obiettivo: ci sono molti modi per raccontare un soggetto e uno di questi (molto efficace) è proprio inquadrarlo da vicino, o inquadrarne solo una parte, esaltando un particolare significativo.
Un esercizio che raccomando sempre (e che costituisce l’oggetto di un mio tutorial pubblicato qui) è di utilizzare un solo obiettivo (ovviamente a focale fissa) per un intero weekend, o anche durante tutto un viaggio.
In questo modo si imparano due cose: prima di tutto che lo zoom più efficace sono i piedi del fotografo; poi che quando un’inquadratura non si può fare, allora se ne sceglie un’altra, diversa ma non per questo meno efficace nel raccontare il soggetto.

Ho usato la messa a fuoco su 45 aree, non capisco perché sia sfocata
I sistemi a matrice e le rilevazioni su più punti servono a chi è pigro o a chi ha molta fretta, ma i risultati non sempre coincidono con quello che il fotografo vorrebbe mettere a fuoco.
Dobbiamo sempre partire dal presupposto che il piano di messa a fuoco (a meno che non si utilizzi un apparecchio a corpi mobili o un obiettivo basculabile) è sempre uno solo, e dobbiamo decidere (noi, non la macchina) dove sistemare quel piano.
Normalmente la messa a fuoco va regolata sul punto più importante del soggetto principale (ad esempio l’occhio più vicino al punto di ripresa se si fotografano persone o animali).
Il tutto tenendo conto che – nella maggior parte delle situazioni – gli elementi sfocati dovrebbero apparire in prevalenza dietro il piano di messa a fuoco e non davanti a esso: un elemento sfocato in primo piano (specialmente se occupa un’area importante) è ammesso piuttosto raramente.

Ho misurato l’esposizione con il sistema Matrix: perché la mia foto è troppo chiara/scura?
La misurazione della luce nelle moderne fotocamere si basa generalmente su sistemi a matrice.
In pratica (e semplificando), il sistema elabora le informazioni rilevate su diversi settori del campo inquadrato, spesso tenendo conto anche del contrasto generale e della distanza del soggetto.
Il sistema fornisce risultati attendibili quando il soggetto è centrale rispetto all’inquadratura, o quando non ci sono forti contrasti, ma non tiene conto, ovviamente, delle preferenze e delle esigenze espressive del fotografo.
Un soggetto controluce, ad esempio, può essere trattato in modi diversi a seconda di quello che si vuole ottenere: silhouette scura del soggetto che si staglia contro uno sfondo correttamente esposto? Soggetto perfettamente leggibile contro uno sfondo fortemente sovraesposto? Soggetto e sfondo entrambi correttamente esposti?
Ciascuna di queste soluzioni richiede procedure differenti che devono essere decise dal fotografo e che non possono essere affidate a un sistema di misurazione automatico.
Inoltre, più banalmente, dobbiamo ricordare che l’esposimetro è tarato per restituire sempre e comunque il grigio medio, coincidente con la zona V del sistema zonale (livello 118 nello spazio colore Adobe RGB).
Se l’insieme dei toni nella scena non coincide con il grigio medio, il sistema tenderà a sovraesporre i soggetti scuri e a sottoesporre i soggetti chiari.
La domanda giusta non è perciò “Qual è la corretta esposizione per questo soggetto?”, ma bensì “Quale elemento voglio che appaia perfettamente leggibile?” o, in parole più tecniche, “Dove voglio il grigio medio?”
Solo a questo punto si potrà misurare la luce, prima sul punto prescelto, poi sulle aree intorno, per verificare quanto si discostano dal grigio medio (deciso, non misurato!) e quanto si deve correggere per ottenere un’immagine i cui rapporti tonali coincidano con quelli della “immagine mentale” che ci eravamo fatti osservando la scena: è raro che il point-and-shoot tipico del principiante conduca ai risultati che avevamo previsto.

Non avevo la macchina giusta
Non esistono macchine sbagliate.
Cartier-Bresson adoperava una Leica a telemetro con un obiettivo da 50 millimetri.
Uno strumento blasonato, per carità, ma molto meno performante e versatile di una reflex entry-level equipaggiata col 18-55 economico.
Anche se avesse una reflex più costosa, chi accampa una simile scusa continuerebbe a fare foto scadenti, usando oltretutto la macchina al venti per cento delle sue possibilità.
Non investite in attrezzatura, investite in formazione: è questo il modo migliore per diventare un bravo fotografo.

Non ho usato il flash perché non mi piace
Se non ti piace è perché non lo sai usare.
Impara a farlo e ti accorgerai di quante possibilità creative si spalancano di fronte a chi sa dominare con perizia questo strumento, un vero piccolo “sole portatile”.

Le scuse sulla postproduzione

Io non elaboro niente: voglio che la foto appaia così come è stata scattata.
Chi fa un’affermazione del genere non sa di che cosa sta parlando.
Soprattutto, non ha capito niente del funzionamento del sensore e dei procedimenti fisici che sottendono alla formazione dell’immagine digitale.
Il file digitale, infatti, non è una fotografia, ma un insieme di istruzioni “immateriali”, espresse in forma numerica, che permette al sistema di visualizzazione (normalmente il monitor di un computer) di trasformare una serie di segnali elettrici in punti colorati di diversa luminosità i quali – ordinati uno accanto all’altro – generano un’immagine che il nostro sistema percettivo riconosce come tale.
Inoltre, il sensore registra molte più informazioni di quelle che effettivamente possiamo osservare (i monitor, per quanto sofisticati, sono strumenti imperfetti), per cui, di fatto, l’immagine “così come è stata scattata”, non esiste!
Perciò, prima di continuare a fotografare, iscrivetevi a un corso serio di postproduzione, fate piazza pulita di pregiudizi, falsi concetti e banalità e assumete un atteggiamento meno emozionale e più scientifico.

Non sono bravo in postproduzione
Allora impara.
Nella fotografia digitale la fase del trattamento ha un’importanza non inferiore a quella della ripresa.
Quello che per il cinema è il montaggio (come insegna Ejzenštejn), per la fotografia digitale è la postproduzione.
La cura che il fotografo digitale dedica al suo lavoro non è dissimile da quella destinata alla fotografia in bianco e nero, dove ripresa, sviluppo e stampa costituiscono altrettanti anelli di un’unica catena vòlta a ottenere un risultato accuratamente previsto e programmato.
Ne consegue che la vera funzione della postproduzione è quella di esaltare e valorizzare quelle caratteristiche dell’immagine che ci avevano spinti a effettuare la ripresa.
Elaborare un’immagine, infatti, non significa aggiungere effetti speciali e colori psichedelici, ma evidenziarne gli aspetti salienti, cioè gli elementi “forti” che andranno a formare la struttura portante del nostro messaggio: “Perché ho scattato questa foto? Che cosa volevo raccontare? Come posso metterlo in risalto?”
Insomma, trattare “bene” (cioè in modo esperto e competente) le proprie fotografie è il modo più corretto per dare valore a quello che si sta facendo, indipendentemente dal fatto che lo si faccia per lavoro o per passione.

Le scuse sulla formazione

Ho venduto delle fotografie, quindi non ho più nulla da imparare
Il fatto che qualcuno abbia acquistato qualche vostra fotografia non significa che voi siate arrivati.
Anche una scimmia sarebbe in grado di scattare una o due fotografie vendibili, il problema è che tutte le altre farebbero schifo.
La bravura di un fotografo si misura sulla qualità globale della sua produzione, non sulla botta di culo che ha avuto nell’azzeccare una fotografia commerciabile.
Inoltre, il mercato della fotografia è in costante e tumultuosa evoluzione e pertanto richiede un aggiornamento continuo: informarsi, consultare riviste, visitare mostre, iscriversi a corsi e workshop.
Lo stesso vale per i progressi della tecnologia, che vanno seguiti con attenzione, sia per quanto riguarda l’evoluzione delle attrezzature, sia per quel che concerne lo sviluppo dei software.
Se pensasse di sapere ormai tutto, il fotografo smetterebbe di crescere e diventerebbe presto obsoleto.

Variante 1: ho pubblicato un manuale di fotografia, quindi non ho più nulla da imparare
Io ho pubblicato una ventina di libri di fotografia, anche con editori importanti a livello nazionale, ma non mi ritengo ancora un esperto.
Ci sono cose che ignoro e aspetti che devo approfondire.
Quanto più studio, tanto più – come diceva Socrate – so di non sapere.
Avere pubblicato (spesso a proprie spese) un manuale distribuito online significa soltanto che si è stati capaci di apprendere, digerire e rielaborare delle nozioni.
Complimenti e auguri di successo, ma ciò non significa che si debba smettere di studiare.

Variante 2: ho un blog di fotografia con migliaia di followers, quindi non ho più nulla da imparare
Internet è un’arena aperta a tutti, dove chiunque può dire la sua.
Non solo, ma può trovare centinaia, migliaia di persone che pendono dalle sue labbra, accettando acriticamente tutto ciò che dice.
Se così non fosse, non si spiegherebbero i terrapiattisti.
Questo perché Internet ci offre una quantità prima inimmaginabile di informazioni, ma non ci dà gli strumenti per selezionarle (ci dà invece gli strumenti per controllarle, ma pochi lo fanno).
Perciò, il fatto che qualcuno (me compreso) impartisca lezioni di fotografia su Facebook, YouTube o su una piattaforma di blog non significa automaticamente che sia un maestro.
L’efficacia e la coerenza di quello che dice non si misurano dal numero dei followers, ma dai risultati ottenuti da chi segue i suoi insegnamenti e consigli.

Abito lontano: per aggiornarmi dovrei andare in un’altra città
E vacci.
Mi chiedo che cosa impedisca a una persona di muoversi, se non gravissimi problemi fisici.
Fin dagli albori della specie umana, la gente si sposta per andare dove individua delle opportunità, non capita che le opportunità si spostino per andare dalla gente.

Alla prossima.