Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

MARZO 2018

Il sole portatile

Riprendiamo due vecchi articoli apparsi su “Nadir”nel luglio 2001 e nel febbraio 2003, aggiornandoli e adattandoli alle esigenze del fotoamatore di oggi.

Introduzione

Quanto sapete davvero usare il flash?
Siete fortunati possessori di un E-TTL tuttofare e di un libretto di istruzioni ponderoso quanto una Bibbia ma nonostante questo non riuscite a illuminare come vorreste?
Siete fra quelli che orgogliosamente dichiarano “Il flash? Non mi piace!”, perché in realtà lo considerano alieno e misterioso?
Davvero non volete incrementare la vostra competenza nell’uso del flash e impadronirvi di tecniche più “professionali”?
In questo articolo vi saranno suggeriti alcuni “tip” che – vedrete – fanno la differenza.
Innanzitutto, sfatiamo una leggenda: il flash non serve solo quando è buio.
Anzi, quando è buio raramente serve davvero.
Se la luce è poca, ciò che più serve è il cavalletto.
Quando invece la luce è tanta, ma magari proviene dalla direzione sbagliata, allora serve una fonte di luce “nostra”, direzionabile e dosabile a piacere; una luce capace di schiarire le ombre, di compensare i contrasti, di creare gli effetti di illuminazione che vogliamo noi e che magari la luce disponibile non ci consente di ottenere.
Questa fonte di luce, il flash, non è un comune accessorio, no, lui è il nostro piccolo sole portatile!
E il fatto che molti (professionisti compresi) non lo usino volentieri è solo perché non ne hanno ancora scoperto le infinite potenzialità creative.

Se la luce è poca

Incominciamo con il considerare l’eventualità più semplice: l’uso del flash quando la luce ambiente non risulta sufficiente a garantire un’esposizione corretta.
In casi come questo il ricorso al flash pone al dilettante più problemi che soluzioni.
Con il flash diretto (quello incorporato nella calotta della reflex o montato sulla slitta a contatto caldo), il soggetto viene investito da una violenta luce frontale.
Se si tratta di una persona umana il fenomeno degli occhi rossi è quasi scontato; se lo sfondo è vicino, l’ombra del soggetto vi sarà proiettata.
Ogni rilievo e ogni testura superficiale saranno “ammazzati” dalla luce diretta.
Risultato: una foto segnaletica che neanche la Banda Bassotti.
E questo avviene indipendentemente dal fatto che il flash sia direttamente montato sulla slitta a contatto caldo o spostato lateralmente, come i flash a torcia professionali (cosa che ridurrà il fenomeno degli occhi rossi ma non l’effetto foto segnaletica).
Soluzioni? Eccole.

1. Se ci si trova in un ambiente chiuso, rivolgere il flash verso una parete o verso il soffitto, purché bianchi (in modo da non indurre dominanti cromatiche), oppure contro tendaggi, asciugamani o lenzuola di colore bianco che agiscano come un pannello riflettente.
Chi non ha paura di spendere poche decine di Euro, si procuri un pannello riflettente per uso fotografico: ne esistono diversi e anche quelli non di marca funzionano benissimo.
Sono utili sia per riflettere la luce del flash direttamente sul soggetto, sia per funzionare come luce di schiarita (si veda il punto 2 qui sotto).

2. Utilizzare almeno due flash, angolati ai due lati del soggetto, per bilanciare il contrasto tra zona illuminata e zona in ombra: il primo flash dovrà essere più potente o più vicino, per fornire la luce principale; il secondo più debole o più lontano, per fornire la luce di schiarita.
Un terzo flash (dài, esageriamo!), angolato di tre quarti dietro il soggetto, potrà fornire la “luce d’accento”, cioè quel controluce che nelle foto fatte in studio rende luminosi i capelli delle modelle.
Attenzione: non è indispensabile ricorrere a una serie costosi flash capaci di lavorare in wireless.
Le luci secondarie possono tranquillamente essere fornite da quei piccoli lampeggiatori manuali che si comprano per venti Euro sul mercato dell’usato, collegati a economiche servocellule che li faranno scattare leggendo la luce del lampeggiatore principale: basterà qualche prova per capire la giusta distanza.
Con un solo flash, la funzione di luce secondaria può essere svolta da uno specchio (che ne rifletta la luce), o da una superficie bianca molto vicina al soggetto, o (meglio) dal pannello riflettente descritto al punto 1.
Molti di questi pannelli riflettenti hanno una faccia argentata e una faccia dorata, che riflette la luce “scaldandola” un po’ e migliorando il tono dell’incarnato.

3. In presenza di fonti di luce naturale (finestre o altre aperture) o artificiale (lampade) si può unire la luce lampo alla luce disponibile, anche rischiando di mescolare fra loro fonti di luce di diverso colore: non è scritto da nessuna parte che questo sia un reato passibile di ghigliottina, anzi, spesso si può sfruttare questo “errore” a fini creativi.
In questo caso la luce di schiarita può essere rappresentata proprio dalla luce della finestra o di una lampada.

4. Se il soggetto è statico evitare il flash e preferire il cavalletto, dopo avere attentamente valutato gli effetti della luce disponibile.

Abbiamo parlato, al punto 2, dell’utilizzo di due flash, ed è doveroso approfondire l’argomento.
Per stabilire la “giusta” distanza alla quale sistemare luce principale e luce secondaria, bisogna tenere conto del rapporto di illuminazione.
Il rapporto di illuminazione è il rapporto tra la luce che cade sulle parti del soggetto investite dalla luce principale e quelle investite dalla luce secondaria, con lo scopo di ammorbidire le ombre.
Lavorando in bianco e nero si va da un rapporto di illuminazione di 3:1 (le luci ricevono un’illuminazione doppia rispetto a quella delle ombre) a un rapporto di 8:1 per ritratti molto drammatici e contrastati.
Lavorando a colori, data la minore latitudine di posa, il rapporto più abitualmente usato è di 3:1.
Il contrasto cromatico compenserà visivamente lo scarso contrasto tonale.
Un rapporto di 3:1 può essere stabilito facilmente regolando la luce principale a piena potenza e la luce secondaria a metà potenza.
In alternativa, si possono usare lampade di eguale potenza sistemate a distanze diverse.
In base alla legge dell’inverso del quadrato, la distanza della luce secondaria rispetto alla luce principale non dovrà essere doppia, ma differenziata di un valore di diaframma (in pratica, pari alla distanza della luce principale moltiplicata per la radice quadrata di 2).
Se ad esempio la luce principale è a 2 metri, quella secondaria andrà posizionata a 2,8 metri e così via, secondo la scala dei diaframmi (1-1,4-2-2,8-4-5,6-8-11-16-22-32-45-64-90-128-180).
La luce di schiarita avrà in questo modo un’intensità dimezzata rispetto a quella della luce principale.
Il motivo per cui si dice che un simile rapporto di illuminazione è di 3:1 (e non di 2:1, come sembrerebbe intuibile a prima vista) va ricercato nel fatto che la luce principale non cade sulle ombre, mentre la luce secondaria cade sia sulle ombre che sulle alte luci.
Se ad esempio la luce secondaria fa cadere 500 lux sull’intero soggetto, la luce principale farà cadere 1000 lux soltanto sulle aree delle alte luci. Le ombre ricevono un totale di 500 lux, mentre le parti illuminate dalla luce principale ricevono 1500 lux (i 1000 della luce principale più i 500 della luce di schiarita).
Il rapporto tra aree illuminate dalla luce principale e aree illuminate dalla luce secondaria sarà quindi 1500:500, cioè 3:1.

Il flash di giorno!?

Avete mai visto i fotografi di matrimonio, quelli veri?
Usano il lampeggiatore a torcia anche per illuminare la sposa che scende dall’auto e magari c’è un sole che spacca le pietre.
Perché lo fanno?
Per capirlo, provate a fotografare una bella figliola sulla spiaggia alle undici del mattino, con il sole alto nel cielo.
Resterete inorriditi di fronte al risultato ottenuto!
I capelli fanno ombra alla fronte, le arcate sopracciliari fanno ombra agli occhi, gli zigomi fanno ombra al viso e il labbro è spaccato in due dall’ombra del naso, mentre il mento trasforma il collo in una voragine di oscurità.
Così, a chi vi chiede se avete fotografato Godzilla appena uscito dal mare sarete costretti a rispondere “Veramente… sarebbe mia moglie”.
Ammettetelo, non va mica bene.

I fotografi di una volta, quelli che giravano per le spiagge con la Leica a telemetro e l’Agfapan 25, avevano una regola fissa: esporre per le ombre e sviluppare per le luci, il che significa, in parole più tecniche, sovraesporre e sottosviluppare allo scopo di mantenere contenuti i contrasti.
Preferivano fotografare sotto l’ombrellone, con il viso in ombra ma illuminato dal riverbero della sabbia; il resto lo facevano in fase di stampa, ché la pancromatica a grana fine la potevi strapazzare come volevi sotto l’ingranditore.
Poi è venuta l’invertibile a colori, la cui latitudine di posa è flessibile quanto una trave d’acciaio al molibdeno, e certe tecniche raffinate sono finite nel dimenticatoio.
Con i sensori digitali va molto meglio: quelli attuali hanno una gamma dinamica di tutto rispetto e quindi (se non si pretende l’impossibile) una sapiente postproduzione è in grado di risolvere molti problemi.

Tuttavia vale sempre il sacrosanto principio secondo il quale – anche se siamo dei maghi di Camera Raw – una buona fotografia nasce al momento dello scatto, e nessun intervento di postproduzione può migliorare un’immagine sbagliata in partenza.

Che cosa suggeriscono i manuali, quelli che vi trasformano in professionisti spendendo nove euro e cinquanta dal giornalaio della stazione?
Un pannello riflettente, un lenzuolo o un asciugamano bianco...
Storie!
Sfido chiunque girare per la spiaggia con un pannello a tracolla, oppure a trovare due volenterosi che abbiano voglia di sostenere l’asciugamano bianco mentre voi fate la foto.
E poi, dove diavolo lo trovate un asciugamano bianco sulle spiagge italiane, popolate di teli da bagno decorati con l’Uomo-Ragno, con uno squalo o con la foresta di mangrovie di Alvarado?
Quindi vedete bene che il flash è l’unica soluzione praticabile.

Anche perché la più interessante – e più creativa – funzione del flash è proprio quella di modellare la luce sul soggetto e compensarne le ombre anche se (e a volte proprio perché) questi si trova in una zona illuminata.
Il flash emette una luce del tutto simile a quella del sole: la sua “temperatura di colore”, infatti, si aggira intorno ai 5500 Kelvin, che è convenzionalmente quella emessa dal sole a una latitudine media a metà mattina: per i pignoli, 5500 Kelvin corrispondono al “punto acromatico di riferimento”, cioè il punto di eguale energia nel diagramma CIE (Commission Internationale de l'Eclairage).

In soldoni, questo significa che il flash può essere tranquillamente mescolato alla luce diurna, ad esempio per illuminare un primo piano in ombra contro uno sfondo illuminato dal sole, o per ammorbidire le ombre su un volto, come nel caso della foto sulla spiaggia.
Questo è il cosiddetto fill-in diurno, in pratica la corretta illuminazione di un soggetto in ombra contro uno sfondo più o meno illuminato.
I moderni lampeggiatori dosano automaticamente la luce sul primo piano tenendo conto della luminosità dello sfondo e permettendo così un’illuminazione equilibrata su tutto il campo inquadrato.
Per fare questo, basta accendere il lampeggiatore in modalità TTL, lavorare come d’abitudine (ad esempio a priorità dei diaframmi per controllare direttamente la profondità di campo) e scattare.

Ma attenzione, perché la fregatura è in agguato.
Se infatti la luce ambiente non è proprio quella delle undici del mattino sulla spiaggia di Fregene in agosto, ma magari ci troviamo in un campiello di Venezia al crepuscolo, è probabile che il tempo di otturazione deciso dalla macchina sia un po’ troppo lungo per poter lavorare a mano libera e/o con soggetti in movimento: in questo modo otterremo una foto doppia, cioè con due figure sovrapposte: la prima figura, nitida e ben illuminata, sarà quella generata dalla luce lampo; la seconda, mossa e sfocata, sarà quella generata dal lungo tempo di otturazione impostato dall’apparecchio.
Quindi, se si vuole utilizzare la tecnica del fill-in quando la luce è scarsa, occorre mettere in atto tutti gli accorgimenti utili a garantirsi un tempo di otturazione veloce, magari elevando il valore ISO e usando un appoggio stabile se il soggetto è fermo; in alternativa, impostare come tempo di scatto il tempo di sincronizzazione della luce-lampo (variabile da un modello all’altro ma chiaramente specificato nel manuale di istruzioni della fotocamera) e lavorare a priorità dei tempi, lasciando che la macchina decida il diaframma da impostare per ottenere uno sfondo decentemente esposto.

Quando le dimensioni contano

Vi è già capitato di infuriarvi come belve perché il flashetto incorporato nella vostra fotocamera non è capace di illuminare il gatto di casa a più di un metro di distanza?
Se sì, avete già constatato che un flash poco potente è utile – come si dice in Piemonte – quanto una barca nel bosco.
Per capire perché “grosso è bello”, dobbiamo introdurre un concetto fondamentale: la nozione di numero-guida.

Ogni flash è caratterizzato da un suo numero-guida, convenzionalmente riferito a una sensibilità di 100 ISO e derivante dal prodotto tra l’apertura relativa (diaframma) dell’obiettivo e la distanza di ripresa, secondo la formula NG = d´f, dove “d” è la distanza mentre “f” è l’apertura relativa.
Da questa formula deriva il calcolo del diaframma necessario per ogni distanza, in base all’equazione f = NG/d.
Ad esempio, per illuminare correttamente un soggetto posto a una distanza di 5 metri con un flash il cui NG è pari a 40 dovremo impostare un diaframma 8, in base alla formula: f = 40/5 = 8.
Nei flash di una volta c’erano tabelle a doppia entrata che permettevano di calcolare il valore del diaframma da impostare in base alla sensibilità della pellicola e alla distanza del soggetto: i moderni lampeggiatori che lavorano in TTL “dialogano” con la macchina e tutti questi calcoli sono (almeno nella maggior parte dei casi) superflui.
Quindi, se dovete fare la spesa, tanto vale che la facciate una volta per tutte: quanto più il flash è potente, tanto meglio è.
Un flash potente si può ridurre o schermare; permette di giocare con tempi e diaframmi, ubbidisce prontamente anche quando la superficie riflettente è lontana, ma soprattutto permette di dosare gli effetti di luce quando lo si utilizza per il fill-in… insomma, si ha a disposizione uno strumento davvero versatile.
Al contrario, non si può aggiungere potenza là dove non ce n’è, e se la luce è poca non c’è santo che tenga (se non aumentare gli ISO a livelli incompatibili con una qualità accettabile).

Superare i limiti

Come sappiamo, il flash scatta quando la “finestrella d’esposizione” è tutta aperta, cioè quando la prima tendina dell’otturatore ha raggiunto il fine corsa ma la seconda non è ancora partita.
Questa situazione corrisponde a un tempo di otturazione che viene chiamato “tempo di sincronizzazione per la luce lampo”, e che varia a seconda delle macchine.
Ovviamente si può usare il flash con tutti i tempi più lenti (cosa che avviene spesso proprio con la tecnica del fill-in), ma non con i tempi più veloci: se lo si facesse, si otterrebbe un fotogramma parzialmente oscurato dall’ombra di una tendina dell’otturatore.
Il fenomeno non esiste quando si usano obiettivi con otturatore centrale, ma con l’otturatore sul piano focale (tipico delle reflex di piccolo formato) è inevitabile.
O almeno, lo era prima che i progettisti introducessero la funzione Sincro FP (focal plane), anche denominata high speed.
Impostando questa funzione, il flash emette lampi ripetuti ad intervalli fissi durante tutta la durata dell’esposizione: in questo modo si ottiene una sincronizzazione indipendente dalla velocità di otturazione impostata.
Insomma, è quasi come se il soggetto fosse illuminato da una lampada a luce continua (in realtà si tratta di una luce di tipo stroboscopico), con la conseguenza di superare il limite intrinseco dell’otturatore sul piano focale.

Un problema particolare: la macro

Il rapporto di riproduzione (o rapporto di ingrandimento) è il rapporto tra le dimensioni dell’immagine sul fotogramma e le dimensioni reali del soggetto.
Si parla di macrofotografia quando le dimensioni dell’immagine sul fotogramma sono uguali o superiori a quelle del soggetto, cioè (per essere più tecnici) quando il rapporto di riproduzione è pari o superiore a 1:1 (si legge “uno a uno”). In questo caso si dice anche che R=1.
Se si fotografa da vicino ma senza raggiungere il rapporto di 1:1, si parla genericamente di “fotografia ravvicinata” o close-up, ma non di vera macrofotografia.
Questo perché il rapporto di 1:1 è un fatidico limite, oltre il quale molte delle certezze che credevamo acquisite nel campo della fotografia vengono stravolte (magari ne parleremo in un prossimo articolo).
Qui ci occupiamo soltanto del problema dell’illuminazione.
In base a leggi fisiche e a formule che non stiamo ad approfondire, a mano a mano che il rapporto di riproduzione cresce, la luce riflessa dal soggetto e rifratta dalle lenti dell’obiettivo arriva al sensore con sempre minore intensità.
Quando l’obiettivo macro raggiunge il rapporto di 1:1, la luce che colpisce il sensore è un quarto di quella che lo colpirebbe focalizzando all’infinito.
Il che si traduce nella perdita secca di due stop.
Per essere chiari, se io imposto sull’obiettivo un diaframma 11, la luce che arriva al sensore equivale a un diaframma 22.
Questo implica, a parità di diaframma, un proporzionale incremento dei tempi di otturazione.
Ora, se fotografo in casa minerali o gioielli, con la macchina fissata al cavalletto, il lungo tempo di otturazione mi fa un baffo; ma se lavoro sul campo all’inseguimento di farfalle svolazzanti o fiori mossi dal vento, allora sono nei guai.

Senza contare che la profondità di campo è direttamente proporzionale alla distanza di ripresa: quando lavoro a pochi centimetri dal soggetto devo impostare diaframmi chiusi il più possibile per avere qualche millimetro di respiro; in caso contrario, se metto a fuoco gli occhi della farfalla avrò le ali sicuramente sfocate.
Il cavalletto non è la soluzione, sia perché i soggetti in ogni caso si muovono, sia perché sul campo si traduce il più delle volte in un ingombro inaccettabile.
Nemmeno alzare gli ISO è una soluzione: la macrofotografia è affascinante proprio perché permette di cogliere particolari minuti con la massima nitidezza e l’aumento del rumore elettronico non farebbe che ammazzarla.
Ecco perché l’unica soluzione è rappresentata dalla luce lampo, la cui rapidissima emissione di energia è in grado di fermare il rapido vibrare delle ali di un insetto in volo.
In questo modo potrò utilizzare un basso valore ISO per incrementare la nitidezza e un diaframma sufficientemente chiuso per garantirmi la necessaria profondità di campo.
Le case produttrici mettono a disposizione dei macrofotografi soluzioni interessanti, quali ad esempio flash anulari o parabole multiple che si fissano direttamente alla ghiera frontale dell’obiettivo, per lavorare molto vicini al soggetto.

Pennellate di luce

Che fare quando si dispone di un solo flash e si deve illuminare un ambiente molto grande?
La soluzione si chiama open flash, una tecnica professionale di non facile applicabilità ma capace di riservare notevoli soddisfazioni a chi sappia impadronirsene.
In pratica si procede in questo modo:

1. Si oscura completamente il locale.
Questa è una condizione irrinunciabile, senza la quale la procedura diventa impossibile da applicare.
Se il locale non può essere completamente oscurato (come ad esempio una chiesa) si imposti la sensibilità più bassa possibile, chiudendo il diaframma ai valori minimi, e se non basta si faccia ricorso a filtri ND, capaci di decrementare l’esposizione: la corretta esecuzione della tecnica può richiedere svariati minuti, per cui il tempo di otturazione necessario non può essere inferiore;

2. Si apre l’otturatore sulla posa T, oppure sulla posa B con un cavetto di scatto dotato di fermo (in modo da potersi muovere liberamente senza l’obbligo di tenere il dito bloccato sul pulsante);

3. Con il flash in mano ci si muove nell’ambiente, “sparando” lampi successivi, fino a che non si ritiene di aver coperto tutto il locale.
Se anche si dovesse passare davanti all’obiettivo, nessun problema: l’ambiente è buio (o – in alternativa – l’obiettivo è oscurato dai filtri), di conseguenza il nostro passaggio non lascerà traccia sull’immagine.

Quali le difficoltà?
Innanzitutto c’è il rischio di lasciare scoperto qualche angolo, dato che ci si muove al buio.
In secondo luogo, bisogna ricordare che quanto più ci si allontana dal punto di ripresa tanto più lampi saranno necessari per ottenere un’illuminazione corretta: la quantità di luce si riduce a un quarto ogni volta che la distanza dal punto di ripresa raddoppia (legge dell’inverso del quadrato): questo vuol dire che per illuminare le aree più lontane dalla fotocamera potrà essere necessario ricorrere a più lampi successivi.
Infine c’è l’incertezza derivante dall’uso del tutto manuale del flash: la luce basterà? Siamo sicuri di coprire l’intera area senza lasciare dei vuoti? 
Il semplice controllo dell’immagine sul display della reflex non sempre è attendibile, perciò diventa spesso necessario preparare accuratamente le riprese, effettuando preliminarmente i calcoli necessari e aiutandosi con schizzi e disegni.
Un’altra applicazione dell’open flash è la ripresa ravvicinata di oggetti statici: in ambiente oscurato, ci si può divertire a muovere tutt’intorno al soggetto un piccolo flash manuale, azionandolo più volte per variare tanto l’intensità quanto la direzione delle “pennellate”.
Il risultato è imprevedibile, ma proprio per questo il gioco è divertente.

Luci lontane

Quando le esigenze di ripresa impongono di utilizzare il flash staccato dalla fotocamera, o quando è necessario usare più lampeggiatori senza dover fare i conti con una selva di cavi elettrici, i modelli più sofisticati offrono la possibilità di lavorare in modalità wireless, cioè senza filo.
Questo si ottiene in diversi modi: il sistema a fotocellula, il sistema a infrarossi e il sistema a radiofrequenza.
Questi sistemi, nella loro configurazione più avanzata, consentono la completa trasmissione degli automatismi tra macchina e lampeggiatore (primo fra tutti il TTL).

Nella configurazione più semplice, il lampo di un flash posizionato sulla macchina (anche il piccolo flash pop-up incorporato in molte reflex amatoriali), serve a far scattare un flash esterno di maggiore potenza, diretto sul soggetto.
La comunicazione avviene grazie alla fotocellula presente sul flash esterno, che “legge” la luce emessa dal flash pilota e fa partire il lampo.
Anche i flash privi di fotocellula incorporata possono funzionare in questo modo, acquistando la fotocellula separatamente e collegandola al flash.
Svantaggi: il flash esterno può lavorare solo in manuale; basta il sole o un raggio di luce (compresi altri flash usati da altri fotografi) per far scattare il flash esterno; i due flash si devono “vedere” e non possono essere troppo distanti fra loro (soprattutto se per dare l’impulso si usa il piccolo flash pop-up incorporato nella calotta del pentaprisma, che ha una potenza – e quindi una distanza di illuminazione – molto ridotta).

Il sistema master/slave è un’evoluzione del precedente: il flash posizionato sulla macchina e il flash esterno “si parlano” e in questo modo è possibile trasmettere anche gli automatismi (primo fra tutti il TTL).

Il sistema a infrarossi evita che la luce ambiente o il lampo di altri flash disturbino la trasmissione del segnale; anche in questo caso, però, la distanza di trasmissione rimane limitata.

Il sistema forse più affidabile e preciso è rappresentato dalla trasmissione del segnale mediante impulsi radio, il cosiddetto “trigger radio”.
Il sistema è costituito da un trasmettitore, posizionato sul corpo macchina, e da un ricevitore, collegato con il flash remoto.
I modelli più economici si limitano a trasmettere il comando di accensione al flash remoto, che in questo caso può funzionare soltanto in manuale; i modelli più costosi (la differenza può arrivare a dieci volte tanto) permettono al flash remoto (se compatibile) di lavorare in TTL.
Ovviamente è possibile comandare più flash contemporaneamente.
A che cosa può servire un sistema del genere?
Immaginiamo di voler fotografare una marmotta nel momento in cui esce dalla tana.
La luce ambiente è debole, il soggetto si muoverà rapidamente e noi vogliamo assicurarci un tempo di scatto rapido quanto basta per fermarne il movimento.
Ovviamente non possiamo piazzarci a pochi metri dalla tana, perché l’animale avvertirà la nostra presenza e non uscirà mai.
Non possiamo nemmeno fotografare da lontano con un teleobiettivo e un flash montato sulla macchina: per quanto il flash sia potente, non arriverà mai a coprire quella distanza.
Quindi noi dovremo stare lontani (per non allarmare l’animale), ma il flash dovrà stare vicino.
Perciò posizioneremo il lampeggiatore a poca distanza dalla tana e osserveremo la scena a distanza con un obiettivo di lunga focale: quando vedremo l’animale fare capolino dalla tana, faremo scattare l’otturatore e il flash remoto obbedirà fedelmente.
Con il vantaggio che – trovandosi così vicino al soggetto – potrà scattare più volte in sequenza prima di esaurire la sua potenza e richiedere un intervallo di ricarica.
La portata dei trasmettitori radio è molto elevata (fino a 300 metri nei modelli più avanzati), oltre che libera dall’interferenza di luci esterne o di ostacoli fisici.
Non affrontiamo in questa sede funzionalità più sofisticate (come la gestione di gruppi di lampeggiatori mediante la configurazione di differenti canali), che sono riservate a un utilizzo più specialistico.
Il consiglio è di prestare molta attenzione ai prodotti più economici, perché – oltre alla mancata trasmissione degli automatismi – questi possono presentare ritardi nella trasmissione del segnale, soprattutto con velocità di scatto elevate (prossime cioè al limite di sincronizzazione con luce lampo).

Originale o universale?

Ed ecco, alla fine, la domanda che tutti si fanno: c’è una vera differenza tra i costosi lampeggiatori originali (cioè prodotti dallo stesso fabbricante della nostra macchina) e quelli “universali”, cioè prodotti da fabbricanti indipendenti e compatibili con le marche di fotocamere più diffuse?
Bene, la prima differenza è – evidentemente – il costo: il flash originali costano sensibilmente di più.
I lampeggiatori prodotti da marche indipendenti costano meno, ma non sempre presentano tutte le funzionalità degli originali.
È pertanto necessario, prima dell’acquisto, valutare bene le specifiche tecniche dei “candidati” e valutare con attenzione quelle alle quali possiamo rinunciare.
Irrinunciabile – ça va sans dire – la possibilità di funzionare in TTL; irrinunciabile anche la possibilità di inclinare verso l’alto e di ruotare lateralmente la testa del flash. Per quanto riguarda altre funzioni (come ad esempio la possibilità di scattare in remoto con uno i sistemi descritti nel paragrafo precedente) sarà il fotografo a decidere di quali prestazioni avrà davvero bisogno.

Alla prossima.

Descrizione delle fotografie pubblicate in calce

01. Cortazzone (Asti). Chiesa romanica di San Secondo. L’esposizione è stata misurata per lo sfondo (l’interno della chiesa illuminato dall’esterno). Il capitello scolpito in primo piano è stato illuminato dal flash, con potenza ridotta per evitare che il grigio della pietra si trasformasse in un bianco “sparato”. Il lungo tempo di otturazione necessario ad esporre correttamente l’interno ha reso indispensabile il cavalletto.

02. Un artigiano del vetro al lavoro nel suo laboratorio di Murano (Venezia). Il soffitto bianco ha funzionato da perfetto pannello riflettente, diffondendo la luce che in questo modo “piove” dall’alto, viene riflessa dalle pareti (anch’esse bianche) e avvolge dolcemente la scena, evitando ombre taglienti e contrasti esagerati. In questo modo è possibile leggere distintamente tutti i particolari presenti nell’ambiente.

03. La modella è in pieno controsole. Inoltre si trova in mezzo agli alberi, il che potrebbe imprimere alla pelle una dominante verdastra non proprio piacevole. Il flash ha risolto entrambi i problemi: la sua emissione luminosa di tipo “solare” ha evitato le dominanti; inoltre ha illuminato correttamente il viso senza “ammazzare” l’effetto di controluce che dona brillantezza ai capelli e stacca il soggetto dallo sfondo.

04. Anche in questo caso la modella è stata fotografata in mezzo a un bosco, dove le dominanti verdi avrebbero imposto all’incarnato un aspetto decisamente inquietante se il flash non avesse provveduto a ripristinare l’equilibrio cromatico del soggetto.

05. Sulla porta di una casa in montagna, un paiolo di rame riempito di pigne come segno di benvenuto. Il flash in funzione di fill-in ha automaticamente compensato l’illuminazione del primo piano con quella dello sfondo. L’unico accorgimento è stato quello di schermare il flash con un pannello diffusore per evitare eccessivi riflessi sul metallo.

06. Fotografia di backstage durante una sessione con le modelle. Le luci al tungsteno sopra lo specchio illuminano di luce calda il viso della ragazza, riflesso nel vetro, mentre il flash ha provveduto a illuminare uniformemente l’insieme della scena, aiutato dalle pareti e dal soffitto, di colore bianco, che hanno agito come pannelli riflettenti. Questo è un caso di mescolanza di fonti di luce di diversa natura (tungsteno e flash): un “errore” che può invece contribuire a raccontare l’atmosfera di un’immagine.

07. Carrozza storica della Ferrovia del Renon a Oberbozen (Soprabolzano). Il flash ha anche un’altra interessante caratteristica: quella di “scaldare” e ravvivare i colori quando la fotografia è scattata in una zona d’ombra. Merito, evidentemente, della sua luce “solare”.

08. Arbusti fioriti sul Loch a’ Chàirn Bhàin presso Kylesku (regione delle Highlands, costa atlantica della Scozia). Il flash ha ravvivato il giallo dei fiori, vincendo una luce naturale uggiosa e grigia che avrebbe spento tutti i colori. Lo sfondo è stato volutamente sfocato per concentrare l’attenzione sul soggetto principale pur consentendo di percepire l’ambiente circostante.

09. Argynnis aglaia, farfalla della famiglia dei ninfalidi (Valle d’Aosta). Il flash anulare ha consentito un’illuminazione uniforme, che permette di leggere tutti i particolari del soggetto. Un secondo flash, regolato su una potenza ridotta, ha illuminato lo sfondo per rendere intuibile (anche se sfocato) l’ambiente di vita dell’insetto.

10. Fontana della piazza di Chambéry (Savoia). Per esaltare i colori del bronzo e per fermare a mezz’aria le gocce d’acqua, ho aspettato il tramonto, in modo che le facciate dei palazzi sullo sfondo apparissero in ombra. Ho chiuso il diaframma a f/11 per minimizzare l’influenza della luce ambiente e ho fatto scattare il flash impostando il tempo di sincronizzazione di 1/200 di secondo. In questo modo il soggetto appare correttamente illuminato e inserito nel suo ambiente: uno sfondo scuro e sfocato ma perfettamente leggibile.

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