Michele Vacchiano Cultural Photography

Il "tip" del mese

Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere più divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo.

DICEMBRE 2015

I villaggi abbandonati delle Alpi

“Non entrate in questa casa: hanno già rubato tutto”. Questa frase la si poteva leggere – fino a non molti anni fa – a Nivolastro, in Val Soana, uno dei tanti villaggi abbandonati che costellano il paesaggio delle Alpi. Villaggi dove le case sono state spesso lasciate così come si trovavano, con tanto di mobili e suppellettili, come se gli abitanti avessero dovuto andarsene in tutta fretta.

Il Vallone del Roc, laterale della Valle dell’Orco, costituisce un altro esempio di valle abbandonata: i numerosi villaggi che si snodano nella sua parte bassa, fino ai limiti della soglia glaciale, meritano una visita attenta e rispettosa (resa possibile dal sentiero sapientemente attrezzato dall’Ente Parco): il forno, la piccola cappella dove ancor oggi qualcuno accende talvolta una candela, la scuola (un’unica aula che accoglieva tutti i bambini del vallone, e nella quale sono ancora conservati i banchi e la lavagna), le case (alcune vinte dal tempo e dalla neve, altre ancora in buono stato) dove fino a pochi anni orsono (prima del passaggio di certi sedicenti escursionisti) si potevano vedere mobili e arnesi da cucina, giocattoli e strumenti da lavoro. Un insieme che ispira al visitatore un senso non tanto di abbandono, quanto piuttosto di animazione sospesa, come se tra breve gli abitanti dovessero tornare, fare un po’ di pulizia e riprendere le loro consuete attività.

In realtà il vallone è stato abbandonato a partire dagli anni Sessanta. I suoi abitanti, che un tempo godevano di un relativo benessere (lo testimoniano gli affreschi che ornano i muri del villaggio di Capelle) e che commerciavano con i centri di fondovalle (Noasca e Balmarossa) ottenendo beni di consumo in cambio dei prodotti dell’economia silvopastorale, abitano oggi nei paesi più importanti, là dove arriva la strada asfaltata.

E’ questa la costante che si riscontra lungo tutto l’arco alpino occidentale: fin dove la strada arriva (asfaltata o meno poco importa) i villaggi non sono del tutto abbandonati; là dove la carrozzabile ha fine è il deserto. Certo, un tempo questa discriminante non aveva significato: viaggiando a piedi poco importava camminare su un sentiero piuttosto che su una carrareccia (a patto che ci fosse il passaggio per il bestiame ed eventualmente per il mulo), mentre oggi è indispensabile garantire il transito ai mezzi di trasporto motorizzati. Le mucche si portano all’alpeggio con il camion, perciò la Regione deve costruire le interpoderali, anche a costo di trasformare un vallone un tempo maestoso e selvaggio, ricco di una flora unica al mondo come quello dell’Urtier, in uno squallido intersecarsi di strade e di sbancamenti. Ma tant’è: la cultura della motorizzazione esige le sue contropartite, e – come si dice a Cogne – non si può spezzare il pane senza fare le briciole (resta da vedere quanto ne valga la pena, soprattutto in termini di economia del territorio, ma questa è un’altra storia).

Quello che invece voglio sottolineare qui è il fatto che sovente questi villaggi costituiscono un vero e proprio museo etnografico all’aperto, un laboratorio en plein air dove poter studiare e osservare quello che resta della civiltà delle Alpi. Per questo meriterebbero, da parte delle amministrazioni locali, un’attenzione particolare. Lasciare che i tetti crollino sfiancati dal peso della neve, lasciare che le erbacce e i topi si impadroniscano delle vecchie case, permettere che il solito disonesto si appropri di oggetti che – gli piaccia o no – di fatto non gli appartengono, significa dilapidare un patrimonio di cultura e di storia unico ed irripetibile.

Al contrario occorrerebbe ripristinare i sentieri, ristrutturare ciò che è possibile salvare, sensibilizzare le comunità locali e i privati perché si creino associazioni e comitati per la rivalutazione dei luoghi, invitare i proprietari, grazie ai dovuti incentivi, a riprendere possesso delle vecchie strutture, o in caso contrario a venderle a chi sappia farne centri di attrazione per un turismo davvero intelligente. Ne conosco tante di persone che vorrebbero trascorrere una vacanza in villaggi non raggiunti dalla strada. Forse iniziative del genere non varranno a salvare la civiltà delle Alpi, ormai agonizzante, ma ci permetterebbero di fruire – almeno per un poco ancora – di un’eredità di sapere e cultura altrimenti destinata all’oblìo. Lo so: ci vogliono soldi, volontà e capacità politica. I primi si trovano, la seconda si può trovare, la terza – soprattutto a livello locale – è merce rara.

Alla prossima!

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