Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

DICEMBRE 2017

Gomme vecchie su auto nuove (tranquilli, parliamo di fotografia)

Diversi anni fa, quando tenevo corsi di fotografia in grande formato, avevo a che fare non soltanto con professionisti, ma anche con molti appassionati, affascinati dalle possibilità creative offerte dagli apparecchi a corpi mobili.

Alcuni di questi appassionati erano assidui frequentatori dei mercati di antiquariato fotografico e dei negozi specializzati in materiale usato.
Il motivo è evidente: gli obiettivi per il grande formato avevano (e hanno) un costo elevato, giustificato da un’attività professionale ma difficilmente sostenibile dal fotoamatore, per cui quest’ultimo si accontentava di modelli usati e ormai fuori produzione.
Nulla di male, ovviamente, se non fosse che a volte la ricerca dell’antico finisce per sfociare nel vetusto.

A questo si aggiunga il pregiudizio – ancora alquanto diffuso – secondo cui “una volta si faceva tutto meglio”.

Anche a me piacciono gli oggetti di antiquariato.
Ad esempio, conservo ancora la pipa in terracotta del mio bisnonno, e ho anche provato a usarla, giusto per curiosità; ma per fumare le mie amate mixture inglesi a base di Latakia preferisco una Dunhill in buona radica stagionata.
Conservo anche il ferro da stiro in ghisa della nonna: lo scaldava sulla stufa e poi stirava.
Non oso immaginare che cosa accadrebbe se proponessi alla mia colf di sostituirlo al modernissimo e potente ferro a vapore che le ho messo a disposizione!

Un giorno, agli inizi del 2000, un fotoamatore appassionato di antiquariato venne a casa mia, per mostrarmi alcune fotografie scattate con un “glorioso” obiettivo Goerz, acquistato (al prezzo delle patate) in uno di questi mercati.

Per chi non conoscesse la marca, informo che gli obiettivi Goerz rappresentano una nobilissima e blasonata famiglia di ottiche molto usate nella prima metà del ventesimo secolo e apprezzate soprattutto in ambito militare (e i militari, si sa, non transigono sulla qualità dei loro strumenti di osservazione).
Si trattava di un’industria fiorente, superiore, in quanto a dimensioni e numero di maestranze, persino alla Zeiss.

Le stampe in bianco e nero che quel signore mi fece vedere raffiguravano diversi scorci nel centro storico di Erice, in Sicilia.
Mentre me le mostrava, non faceva che decantare la qualità e la nitidezza dell’obiettivo, rallegrandosi di averlo pagato pochissimo e affermando che “di lenti così non ne fanno più”.

E meno male, pensai tra me, perché le foto facevano letteralmente schifo.
Non parlo dell’aspetto compositivo o dell’inquadratura, che pure mostravano senza ombra di dubbio la mano e l’approccio del dilettante, ma proprio dell’aspetto puramente tecnico.
Le immagini apparivano inaccettabilmente morbide, con un contrasto insufficiente, riflessi parassiti intorno alle fonti di luce, cieli sbiaditi e lattiginosi.
Il motivo è evidente: un obiettivo progettato e costruito intorno al 1920 non può sicuramente fornire risultati accettabili se utilizzato con pellicole realizzate alla fine del secolo, ma soprattutto se messo a confronto con le ottiche moderne.

Con tutto il rispetto per una nobile e storica azienda, non si può negare che le conoscenze, le tecnologie, i metodi di progettazione abbiano subito un’evoluzione nel volgere di ottant’anni.
Il trattamento antiriflesso multistrato, adottato a partire dalla fine degli anni ’70 anche per gli obiettivi destinati al grande formato, ha rappresentato una differenza fondamentale, non soltanto per quanto riguarda l’eliminazione dei riflessi parassiti (effetto gradito ma collaterale) ma prima e soprattutto per quanto concerne la trasmissione della luce e la conseguente resa del contrasto.
E questo non è che uno dei molti progressi realizzati dall’industria ottica nel volgere degli anni.

Il problema si ripresenta anche oggi, quando il fotoamatore “nato” con la pellicola si chiede se sia possibile utilizzare sulle reflex digitali il suo nutrito parco ottiche vecchio di trenta o quarant’anni.

Se si consultano i blog e le liste di discussione sull’argomento, si vede che la maggior parte degli esperti pone l’accento sulla compatibilità in termini di tiraggio, sulla perdita degli automatismi, sulla necessità e sulla natura degli anelli adattatori…
Insomma, su particolari puramente “logistici”, i quali però non vanno ad analizzare la vera natura del problema, che in realtà è più complesso e riguarda un aspetto squisitamente fisico-matematico che pochi tengono in considerazione.
Questo aspetto riguarda il potere risolvente degli obiettivi e dei sensori.

Senza voler entrare in disquisizioni aridamente teoriche possiamo dire, semplificando, che gli obiettivi prodotti venti o trent’anni fa per la pellicola possono essere tranquillamente utilizzati con i sensori digitali, a patto che la risoluzione di questi ultimi non sia superiore a un determinato valore.

Quando acquistai la mia prima reflex digitale, una Canon 5D (12,7 milioni di pixel), vi montavo, con un anello adattatore, gli obiettivi Zeiss che avevo usato sulle Contax a pellicola.
La resa era a dir poco superba, anche quando si andavano ad analizzare particolari minuti all’interno dell’inquadratura.
Lo stesso avveniva sulla più professionale 1Ds Mark II (16,6 milioni di pixel).
Sulla Canon 5DS R che uso attualmente (50 milioni di pixel), la resa di quegli obiettivi appare molto meno brillante, e sicuramente inferiore a quella delle ottiche della stessa casa recentemente progettate per il digitale.

Con buona pace degli appassionati delle vecchie ottiche “made in Germany” (da alcuni ancora considerate superiori ai recenti modelli fabbricati in Giappone), va detto che – anche in questo caso – venti o trent’anni di progresso tecnologico e ingegneristico fanno la differenza (si veda in proposito questo articolo pubblicato nel dicembre 2016).

Soprattutto perché gli obiettivi progettati per la pellicola hanno un potere risolvente adatto alle dimensioni dei granuli di alogenuri d’argento, che non sono paragonabili (né per struttura né per distribuzione e disposizione nello spazio) ai fotodiodi distribuiti all’interno del sensore.

Possiamo affermare, generalizzando (e ben consapevoli dei rischi insiti in qualunque generalizzazione), che i vecchi obiettivi forniscono prestazioni accettabili, e a volte anche eccellenti, quando la risoluzione del sensore si mantiene a livelli contenuti.
Quando la risoluzione del sensore – in termini di milioni di pixel – aumenta, le differenze iniziano a farsi evidenti.

Non a caso Phase One – presentando al mercato i suoi nuovi dorsi e apparecchi da 100 milioni di pixel – ha contestualmente varato una nuova linea di obiettivi appositamente progettati per sensori di risoluzione così elevata.
Non si tratta di un’operazione soltanto commerciale, ma di una effettiva necessità progettuale.

Io stesso ho usato i vecchi obiettivi del mio corredo Hasselblad serie V su apparecchi Phase One (la compatibilità è totale, richiedendo un semplice anello adattatore che oltretutto mantiene la messa a fuoco assistita), fino a quando i miei dorsi digitali non hanno superato i 40 milioni di pixel.
Ma sono stato costretto a constatare che, con dorsi digitali di risoluzione superiore, anche i nobilissimi obiettivi Zeiss/Hasselblad (solidi quanto un Panzer Tiger) mostrano la corda, rivelandosi meno performanti dei più recenti obiettivi Phase One e Schneider prodotti (su licenza e specifiche europee) nel paese del Sol Levante.

È vero che le ottiche Zeiss/Hasselblad sono più belle da vedere, più pesanti, più massicce, dall’aspetto più “professionale” e soprattutto “made in Germany”; ma è anche vero che con quegli aggeggi io ci lavoro, e non posso permettermi risultati mediocri, anche se ottenuti con oggetti di aristocratico lignaggio.

Per cui sono stato costretto a disfarmi (ancora una volta, al prezzo delle patate) di strumenti di lavoro che – all’epoca – erano costati un occhio della testa e che per anni avevano rappresentato lo stato dell’arte nel mondo della fotografia.

Le immagini pubblicate in calce a questo articolo illustrano efficacemente quanto stiamo dicendo.

La prima fotografia (la giostra) è stata scattata su un dorso digitale di medio formato da 60 milioni di pixel con un obiettivo Mamiya da 210 millimetri f/4, dotato di messa a fuoco interna, trattamento antiriflesso multistrato e lenti “ultra low dispersion” (l’obiettivo è recensito in questo articolo).
Insomma, uno strumento professionale che – all’epoca – non costava nemmeno poco.
Se si consultano in rete i giudizi e i pareri su questo obiettivo, si nota un fatto curioso: le recensioni più vecchie, riferite alla pellicola, ne parlano come di uno strumento a dir poco eccellente; mentre i giudizi più recenti – riferiti evidentemente al suo uso in ambito digitale – lo qualificano, per bene che vada, come scadente (“it’s a dog”, sentenzia un professionista d’oltreoceano).
Il giudizio negativo è confermato dall’ingrandimento pubblicato accanto all’immagine d’insieme: pur essendo stata realizzata con la macchina sul cavalletto, lo specchio sollevato e lo scatto a distanza (accorgimenti indispensabili per evitare perdite di nitidezza dovute al micromosso), il centro dell’immagine (corrispondente al piano di messa a fuoco) è penalizzato da un contrasto insufficiente e da un’evidente perdita di dettaglio.

Anche la seconda fotografia (i panni stesi) è stata realizzata con lo stesso obiettivo, ma su un dorso digitale Phase One da “soli” 39 milioni di pixel.
Il particolare ingrandito mostra una nitidezza più che accettabile e un buon dettaglio: segno che la minore risoluzione del sensore ha “aiutato” l’obiettivo a evitare una brutta figura.

La terza fotografia (il cervo adulto) è stata realizzata con uno Zeiss Tele-Tessar T* 350mm f/5,6 su un dorso digitale Phase One da 60 milioni di pixel.
Anche in questo caso la qualità dell’ingrandimento della zona centrale lascia a desiderare.

La quarta e ultima immagine (il cerbiatto) è stata scattata con lo stesso obiettivo, montato (con anello adattatore) sulla già citata Canon 1DS Mark II.
L’ingrandimento del musetto dell’animale mostra senza ombra di dubbio una nitidezza più che accettabile.

Dimostrazione lampante di come un obiettivo progettato per lavorare su pellicola (e inappuntabile se adoperato in tale situazione) possa diventare inutilizzabile se unito a un sensore digitale ad alta risoluzione, pur fornendo prestazioni tra il decente e l’eccellente quando la risoluzione del sensore si mantiene entro livelli contenuti.

Per fare un paragone automobilistico, possiamo dire che potrebbe non esserci nulla di male a montare su una Panda gomme prodotte negli anni Sessanta (a patto che ci si limiti a guidare su terreno asciutto e a velocità contenute); ma può diventare molto pericoloso montare pneumatici di quell’epoca su una Porsche da trecento all’ora.

Alla prossima.

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