Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

Ogni mese un suggerimento, un consiglio, un "trucco del mestiere" utile a rendere più divertente, piacevole e professionale il lavoro del fotografo

Ottobre 2016

L’importanza della stabilità

Nella vita, si sa, la stabilità è un valore soggettivo.
Dipende da fattori individuali, dal carattere, dall’indole, dalla predisposizione di ciascuno.
C’è chi fa della stabilità uno stile di vita.
Si sposa, mette su famiglia, cerca un lavoro fisso.
Ogni mattina indossa la camicia azzurra con la cravatta a righe blu perché sua moglie dice che “fa pandàn”, va in ufficio, sbriga le solite pratiche e torna a casa in tempo per la partita su Sky Calcio.
Ogni domenica va a pranzo dai suoceri che stanno in campagna e tutti gli anni trascorre le ferie a Riccione, sempre le due settimane a cavallo di Ferragosto, prenotando sempre la stessa pensione un anno per l’altro e partendo alle tre del mattino perché così fa le partenze intelligenti.
Per trentasette anni.
Quando poi massacra la famiglia e si suicida tutti si chiedono come mai, un tipo così tranquillo…

C’è chi invece compie la scelta opposta.
Cambia spesso vita, partner, lavoro, luogo di residenza.
La routine gli va stretta, la vita lo incalza.
Rischia di invecchiare in solitudine, ma negli anni della vita attiva gira il mondo, si diverte, soffre, prova emozioni – nel bene e nel male – che il suo amico sedentario non sperimenterà nemmeno in cento anni.

Ovviamente non tutto dipende dall’indole e dalla volontà individuale: c’è chi la stabilità la vorrebbe, ma le circostanze della vita non gli permettono di raggiungerla; chi lotta per averne almeno un po’, chi dolorosamente decide di lasciare la sua casa e una stabilità perduta per cercare di ritrovarne almeno una parvenza in paesi lontani.
Questa è, purtroppo, la situazione di una cospicua parte dell’umanità, un’umanità che proprio per questo merita attenzione, rispetto e aiuto da chi la stabilità può sceglierla.
Ma questa è un’altra storia.

In fotografia, contrariamente che nella vita, la stabilità non è una scelta, è un obbligo.
Dove per “stabilità” si intende l’assoluta immobilità della superficie di acquisizione (pellicola o sensore) al fine di impedire che durante l’esposizione la superficie stessa possa essere interessata da una seppur minima vibrazione o da un qualunque tipo di movimento.

La faccenda può sembrare irrilevante a chi fotografa per diletto, e che pretende di portare a casa il ricordo della camera d’albergo scattato con lo smartphone (in modalità totalmente automatica e senza flash obbligato) o con la reflex equipaggiata da zoom 18-55 supereconomico in dotazione, che al massimo apre a f/5,6.
Scatta a un quindicesimo di secondo e poi si lamenta che la foto è poco nitida, evidentemente per colpa dello smartphone o dello zoom economico.

Lo so, ne abbiamo già parlato molte volte e su diversi media (v. Il dettaglio svelato su “FotoCult”, a. XIII, n. 131 - maggio 2016), ma le cattive abitudini sono dure a morire e bisogna insistere, anche se sono scettico sulla convinzione latina secondo cui “repetita iuvant”.
A parte il fatto che spesso “repetita” rompono le scatole, se davvero la cosa funzionasse, se gli esempi passati servissero al presente, l’umanità avrebbe smesso da tempo di massacrarsi, di rubare e di lucrare sulle disgrazie dei propri simili.
Ma poiché questo continua ad accadere, è evidente che “repetita non iuvant semper”.
Ma anche questa è un’altra storia.

Tutto ciò premesso, guardate l’immagine qui sotto:

Bella, vero? Raffigura la Tête de Valpelline, la Dent d’Hérens e le Grandes Murailles viste dal sentiero che dal lago di Place Moulin sale verso il rifugio Aosta, in Valpelline.
È stata scattata a mano libera con una Canon Eos 5DS R (sensore da 50 milioni di pixel) a 1/50 di secondo con diaframma f/5,6, alla sensibilità nativa di 100 ISO. L’obiettivo era uno Zeiss Planar 85mm f/1,4 ZE.
Una situazione di scatto che sarebbe apparsa tranquilla alla maggioranza dei fotoamatori (un cinquantesimo? Figuriamoci!), che spesso osservano le proprie immagini sullo schermo del computer e si accontentano delle dimensioni di visualizzazione, senza preoccuparsi di verificare come “davvero” è venuta la foto.

Proviamo invece ad ingrandire la parte centrale, portandola al cento per cento:

La perdita di nitidezza dovuta al micromosso è evidente.
L’immagine fa letteralmente schifo (posso dirlo perché è mia) e bisogna cestinarla, a meno che non ci si voglia accontentare di una stampa formato cartolina (ma allora che ti compri a fare una reflex quando un vecchio telefonino con sensore da due milioni di pixel fa lo stesso?).

Anche perché – non dimentichiamolo – quanto più aumenta la densità del sensore (in pratica, quanto più numerosi sono i fotodiodi presenti sulla superficie di acquisizione) tanto più si incrementa il rischio che il micromosso diventi evidente.

Per capire come avviene, facciamo un esperimento immaginario.
Ipotizziamo di fotografare uno stelo mosso dal vento su due diversi sensori di uguali dimensioni: uno da 12 milioni di pixel e un altro da 24 milioni di pixel, mantenendo lo stesso tempo di otturazione.
Poiché i due sensori hanno le stesse dimensioni, è evidente che nel secondo i fotodiodi sono più numerosi a parità di superficie (quindi più piccoli).
Sul sensore di minore densità il filo d’erba si muoverà coprendo un certo angolo e quindi un determinato numero di fotodiodi.
Ma se la densità dei fotodiodi raddoppia (perché a parità di area coperta essi sono più piccoli), lo stelo, muovendosi secondo lo stesso angolo, coprirà una porzione di pixel doppia.
Se nel primo caso l’effetto di mosso potrebbe essere contenuto, nel secondo caso esso diventerebbe evidente, una volta ingrandita l’immagine al cento per cento.

Da tutto questo si ricava che quanto maggiore è il numero di pixel del sensore, tanto più elevato sarà il rischio di micromosso quando si lavora a mano libera.

Questa fotografia è stata scattata su dorso di medio formato (49x37mm) da 39 milioni di pixel, unito a una fotocamera Phase One 645DF con obiettivo Zeiss Sonnar 180mm f/4, cavalletto professionale, scatto flessibile e sollevamento preventivo dello specchio.
A fianco l’ingrandimento al cento per cento della zona centrale. Credo non abbia bisogno di descrizioni.

Un’altra fotografia, scattata in un caldo pomeriggio d’estate: due anziani coniugi chiacchierano sul balcone di casa, cercando un minimo di sollievo dalla calura estiva.
È stata realizzata con gli stessi accorgimenti della precedente, ma con un obiettivo da 350 millimetri.
L’ingrandimento al cento per cento, rivela i dettagli del vetro della veranda, dello stenditoio e del vestito della signora, nonostante un tempo di otturazione decisamente lungo in rapporto alla focale utilizzata (1/30 di secondo).

Ovviamente il cavalletto (che DEVE essere più pesante della macchina) non è l’unica soluzione.
L’importante è un appoggio stabile, che può essere anche un muretto, il tetto della macchina o lo stipite di una porta.

La fotografia a fianco è stata scattata nella chiesa gotica di San Domenico (Torino), appoggiando il fondello della fotocamera allo stipite della porta di ingresso: la mano destra impugnava la macchina con l’indice sul pulsante di scatto, la sinistra premeva con forza contro la calotta del pentaprisma, per evitare che la reflex scivolasse sulla superficie di appoggio (maledettamente liscia) durante la lunga esposizione (due secondi).
Il solito ingrandimento al cento per cento evidenzia la nitidezza dell’immagine.

Anche in mancanza del cavalletto (come può avvenire durante un viaggio o una vacanza in famiglia), saranno la fantasia, il luogo, i manufatti dell’uomo o le risorse della natura a offrirci il supporto di cui abbiamo bisogno.

Questa fotografia (a fianco, il solito ingrandimento al cento per cento) è stata scattata a Venezia, alle sette e mezza di sera di un due novembre, appoggiando semplicemente la macchina (una Phase One 645 DF con dorso di medio formato da 39 milioni di pixel) su un banalissimo bidone della spazzatura. Parametri di scatto: obiettivo Schneider 80mm f/2,8 diaframmato a f/8, 1 secondo di esposizione a 200 ISO.

In ogni caso, ricordiamo sempre che quanto più alta è la risoluzione del nostro sensore, tanto più diventa indispensabile prestare attenzione (un’attenzione maniacale, se ci si vuole distinguere dalla massa dei fotografi da telefonino) alla stabilità.

Con buona pace degli stabilizzatori ottici, che aiutano, certo, ma non fanno miracoli: ancora una volta, tutto dipende da quanto si ingrandisce l’immagine in fase di stampa.
I proclami dei fabbricanti (acriticamente tramandati da vari siti internet), secondo cui un obiettivo stabilizzato sarebbe in grado di far “guadagnare” fino a tre stop, convincono soltanto chi crede ancora a Babbo Natale.

I fotoamatori attratti dagli annunci delle case produttrici, che fondano sul numero di Megapixel le loro campagne di penetrazione commerciale, sono avvisati: quanto più incrementate il numero di pixel sul sensore, tanto più dovrete imparare a usare cavalletto (o un qualunque appoggio davvero stabile), scatto flessibile e specchio sollevato.

In caso contrario… mossi vostri.

Alla prossima.