Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

Giugno 2017

Non fotografare...

Frequento con regolarità, almeno una volta all’anno, le mostre organizzate dalla prestigiosa Fondation Pierre Gianadda di Martigny (Svizzera), spesso approfittando del periodo estivo.
Dal villaggio dove trascorro i miei periodi di riposo a Martigny non ci sono che 150 chilometri: poco meno di tre ore se – invece di imboccare il veloce (ma costoso) tunnel del Gran San Bernardo – si sceglie di percorrere la lunga, tortuosa ma panoramica strada del Colle.
Con minore assiduità, a causa degli impegni che il lavoro e la vita quotidiana impongono, frequento le numerose mostre che una città culturalmente vivace come Torino organizza e promuove durante il resto dell’anno.
Chi frequenta questi appuntamenti non può fare a meno di notare un fenomeno sempre più diffuso e in crescita esponenziale: un graduale ma inarrestabile cambiamento nel comportamento di gran parte dei visitatori, che non guardano direttamente gli oggetti esposti, ma li fotografano o filmano compulsivamente con i loro cellulari.
Muovendosi con rapidità tra le opere, senza minimamente soffermarsi non dico ad analizzarle, ma nemmeno a guardarle, questi consumatori di immagini ossessivi e frettolosi non fanno altro che fotografare e filmare, con lo sguardo fisso sul display del loro smartphone e le dita in frenetico movimento sulla tastiera touch-screen, allo scopo di condividere in tempo reale ciò che stanno osservando.
Anzi, no, non osservando, perché in realtà non guardano nulla: semplicemente catturano, prendono, rubano con ingordigia una serie di immagini che nemmeno si prendono il tempo di capire.
Perché ormai la realtà non esiste se non filtrata (e subito condivisa) attraverso l’occhio inconsapevole e sempre connesso del telefonino.

Così, in quest’epoca di orgiastico e compulsivo ricorso ad ogni mezzo capace di fissare su una scheda di memoria e di rendere noto agli altri tutto ciò di cui siamo testimoni (pallido e vano tentativo di colmare il nulla che ci invade), inframmettendo tra noi e il mondo uno smartphone costantemente acceso e costantemente collegato alla rete, ormai incapaci di guardare con i soli nostri occhi ma divorati dall’ansia di catturare e diffondere soprattutto la banalità, è forse necessario rifarsi a un lontano e dimenticato principio etico, che nulla ha a che fare con la “privacy” o con le leggi vigenti, ma che deriva dal semplice fatto – semplice ma spesso dimenticato – che siamo esseri umani, e soprattutto europei, discendenti morali di una civiltà sviluppatasi sulle rive dell’Egeo e capace di insegnare al mondo concetti quali libertà, democrazia, dignità e rispetto.

Il poeta latino Terenzio, nato a Cartagine, vissuto a Roma ma imbevuto di cultura greca, fa dire al personaggio di una sua commedia: Homo sum, humani nihil a me alienum puto (sono un uomo: nulla di ciò che è umano mi è estraneo).
Dove la parola humanitas non denota soltanto l’umanità in quanto specie, ma anche e soprattutto quell’insieme di conoscenze e valori che ci distinguono dai nostri fratelli di pelo e di piume.

Purtroppo, di fronte a chi rallenta il traffico per riprendere un incidente d’auto appena avvenuto, o a chi scatta ossessivamente persino durante un funerale, il mio amore per quei rappresentanti dell’umanità viene messo a dura, durissima prova.

Per cui non ritengo insensato iniziare a pensare che l’assoluta libertà di scatto dovrebbe essere – almeno in parte – limitata da qualche paletto.
Quelli normativi già esistono, ma sono allegramente disattesi.
Su quelli etici, forse, si può lavorare.

Fermo restando il dovere di informazione, esercitato da ben delineate figure professionali (ma tra poco ce ne sarà anche per loro), con quale diritto il cittadino comune punta l’obiettivo del suo cellulare – o della sua reflex, non fa differenza – verso chiunque e qualunque cosa ritenga interessante condividere?
Non è da questa insensata mania che derivano gli episodi tragici di adolescenti suicidi per la vergogna di essere stati ripresi e “condivisi” in occasioni e circostanze lesive della loro dignità?

E allora cerchiamo di capire perché, in nome della “street photography”, ci spingiamo a fotografare chi ha fame, chi muore dal freddo, chi rovista nella spazzatura alla ricerca di ciò che noi gettiamo via; chi fa commercio del proprio corpo o chi si umilia a tendere la mano, o a vendere inutile paccottiglia davanti alle vetrine delle nostre gioiellerie.

Perché durante le feste riprendiamo con lo smartphone l’amico o l’amica in preda alla droga o all’alcool?
Perché infierire su chi ha smarrito la strada per nostra colpa?

Ho percorso le vie della mia città in compagnia di fotografi dilettanti che si ostinavano a riprendere barboni e senza casa: vecchi abbandonati da tutti, addormentati tra i cartoni o sulle panchine di un parco, persone come noi, forse non ignoranti né “fuori di testa”, ma solamente segnate dalla sventura; esseri umani che l’alba potrebbe trovare irrigiditi nella solennità della morte.

La legge italiana non vieta di fotografare, neppure in questi casi, ma si limita a vietare la pubblicazione delle immagini senza il consenso della persona ritratta, se questa è riconoscibile (dove “pubblicazione” significa anche condivisione su un social).
Ma forse è il caso di fare un passo in più, per capire che la stessa idea di fissare su una scheda di memoria situazioni del genere è lesiva non tanto di un codice legislativo, quanto soprattutto di un più alto principio morale.

Il discorso non esclude i professionisti deputati alla diffusione delle informazioni, ai quali la legge consente di riprendere e pubblicare senza alcun consenso.

Ma in nome di quale millantato “dovere di informazione” i reporter televisivi si accaniscono su chi si abbandona al pianto, schiacciato da tragedie che ognuno di noi vorrebbe tenere lontane dalla sua vita?
O sul prigioniero ammanettato (prigioniero, non per questo colpevole), che non può nascondere il proprio volto con le mani?
Noi non sappiamo che cosa sono costretti a sopportare il condannato dopo la sentenza, l’ammalato in ospedale, il demente che ha smarrito la ragione, il terremotato che ha appena perso casa e familiari: concediamo loro, almeno, la dignità dell’oblio.

Quale delirio di onnipotenza ci autorizza a creare immagini capaci di suscitare vergogna, orrore o raccapriccio nei nostri soggetti, se questi potessero vederle?

La compassione sia più forte del dovere di informare; l’amore sia più tenace del nostro desiderio di realizzare uno scoop: non offendiamo i nostri simili con la scusa che è il nostro lavoro, in ossequio alla carriera, o peggio per il semplice capriccio di mostrare agli amici che cosa abbiamo visto.

Nessuna reflex, nessuna videocamera, nessun contratto di lavoro, nessun desiderio di notorietà, nessuna scusa basteranno a renderci innocenti.

Alla prossima.