Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

OTTOBRE 2022

Il ritorno dell’argento

Come fotografo, sono “nato” ai tempi della pellicola.
Lo ritengo un vantaggio, perché conoscere i procedimenti che stanno alla base della formazione chimica dell’immagine mi ha aiutato a capire (e a sfruttare creativamente) anche la sua trasformazione fisica.
La gestione del colore, ad esempio, o il trattamento del bianco e nero digitale, derivano dalle mie conoscenze di colorimetria e dall’uso esperto dei filtri colorati che utilizzavo fotografando in analogico.
Senza contare le tecniche di camera oscura, che ritrovo – con procedure differenti ma con analoghi risultati – nei software di trattamento del RAW: Lightroom, Capture One o Camera Raw.
Le mie conoscenze relative al sistema zonale di Ansel Adams e alla fotografia in grande formato con apparecchi a corpi mobili (che ho insegnato per anni) mi permettono – paradossalmente, ma solo in apparenza – di applicare il sistema zonale anche nella fotografia digitale.
Questo perché la fotografia digitale è molto più simile alla fotografia in bianco e nero in grande formato che alla fotografia a colori.
Pensiamoci un attimo: prima di tutto il sensore “vede” in bianco e nero (i colori vengono prodotti grazie a un procedimento di interpolazione cromatica nei sensori Bayer, oppure catturando l’intera gamma cromatica dell’immagine con ogni pixel dell’array nei sensori Foveon); poi i singoli file di immagine vengono sviluppati uno ad uno, proprio come avviene con le pellicole piane di grande formato.
Ed è questo che permette di applicare il sistema zonale.

Oggi stiamo assistendo a un ritorno della fotografia analogica, prevalentemente in bianco e nero.
Un aspetto percentualmente poco rilevante (ma promettente) del fenomeno è rappresentato da un timido ritorno alla fotografia in grande formato: quello che affascina non è soltanto la già citata possibilità di applicare il sistema zonale (impossibile da ottenere quando si lavora su un rullino, i cui fotogrammi sono sviluppati tutti nello stesso modo) ma sono anche – e forse soprattutto – la versatilità e la creatività dovute alle possibilità di movimento dei corpi.

Un altro filone, che ritengo derivante più dalla curiosità e da finalità artistiche che dalla ricerca di una fotografia più tradizionale e tecnicamente rigorosa, è quello che vede protagoniste macchine “vintage” o decisamente votate alla sperimentazione: gli appassionati di lomography, o di fotografia con foro stenopeico, o di Polaroid, sono numerosi e non tutti spinti soltanto dalla moda.
Basti ricordare quanti artisti e quanti sperimentatori abbiano utilizzato il metodo Polaroid per creare opere divenute icone di un’epoca e di uno stile.

A che cosa è dovuto questo “ritorno di fiamma”?
Personalmente ritengo che le ragioni siano molteplici.
Da un lato, un mercato dell’usato che mette a disposizione macchine di elevata qualità a prezzi irrisori: io ho venduto il mio corredo Hasselblad, se così si può dire, al prezzo delle patate, e anzi molti componenti li ho addirittura regalati.
Dall’altro, il fatto che i fotografi più giovani, nativi digitali, sentono a volte il bisogno di riappropriarsi del controllo completo su macchine, obiettivi e procedimenti di formazione dell’immagine, ritenendo ingombrante, e spesso frustrante, l’eccesso di automatismi che consentono sì di evitare gli errori, ma che nello stesso tempo sembrano limitare la creatività e la libertà (anche quella di sbagliare).
Altri, poi, desiderano ritrovare il piacere di scattare e basta, senza essere costretti a imparare Photoshop, o qualunque altro software di trattamento.
Spesso si tratta di persone costrette (per lavoro o per studio) a lavorare quotidianamente (e per molte ore al giorno) con il computer, e che almeno quando si dedicano al proprio hobby preferiscono non averci a che fare.
Il fenomeno si è comprensibilmente acuito negli ultimi anni, quando la pandemia e il conseguente incremento del lavoro a distanza hanno moltiplicato a dismisura le ore trascorse davanti al monitor.
Questo ha contribuito ad alimentare un senso di sazietà e – in molti casi – di repulsione nei confronti del nostro amico elettronico, divenuto ormai più un padrone che un servitore.
Senza contare il piacere di maneggiare una stampa fotografica che è frutto del nostro lavoro.
Certo, anche una foto digitale può essere stampata (ed è sempre frutto del nostro lavoro, dato che l’abbiamo non solo scattata, ma anche postprodotta), ma la sentiamo meno “nostra” di un qualcosa che invece abbiamo ottenuto con procedure interamente manuali: scuotendo una tank, mettendo a fuoco l’obiettivo di un ingranditore e agitando un rettangolo di carta in una bacinella.
Senza contare tutto il contorno di pinze, bottiglie, termometri, forbici e cilindri graduati che non soltanto evocano “l’antro dello stregone”, ma che soprattutto sentiamo nostri, ci appartengono; li vediamo e li possiamo toccare, contrariamente ai pixel e ai cursori del modulo di sviluppo di Lightroom.

Nella percezione comune, il digitale è frenetico.
In realtà non è così: la frenesia è solo dei non fotografi, che usano la fotografia come semplice mezzo di documentazione di un evento e che producono miliardi di immagini inutili di pizze, gatti, figli e tramonti per poi postarle sui social e perderle definitivamente quando lo smartphone si sarà guastato.
Per contro, il fotografo vero (professionista o dilettante non fa differenza) non si lascia indurre a scattare compulsivamente, ma ragiona con attenzione su ogni singola fotografia, indipendentemente dal fatto che lavori su supporto chimico o elettronico.
Ma la percezione comune è quella, e a tale percezione l’analogico risponde con parole d’ordine di segno opposto: lentezza, riflessione, pazienza.
Fotografare su pellicola diventa così un gioco rilassante, che richiede i suoi tempi e le sue procedure.
Ma è anche una sfida: come sarà venuta la foto?
Così, il fatto di dover aspettare prima di poter vedere il risultato aggiunge al gioco la giusta suspense.

Certo, per molti è soltanto una moda: andare in giro con una vecchia Leica al collo “fa figo” in certi ambienti, così come postare sul proprio profilo fotografie insignificanti ma “interessanti” solo perché scattate su pellicola.
Ma accanto a questo aspetto (inevitabile in tutti i fenomeni di costume) ce ne sono diversi altri che meritano attenzione e che il mercato sta incominciando ad “annusare”.

I nativi digitali che per la prima volta si accostano al mondo della pellicola possono trovarsi inizialmente disorientati.
Non si può controllare il risultato subito dopo lo scatto, per cui è necessario curare con molta attenzione l’esposizione e la messa a fuoco.
Non si può modificare il valore ISO, perché ogni pellicola ha la sua sensibilità, così bisogna caricare la pellicola giusta per ogni singola situazione di luce.
Per contro, la pellicola è in grado di perdonare qualche errore: se il negativo non viene stampato in grandi dimensioni (diciamo fino a 20×30 centimetri, che è lo standard delle fotografie di cerimonia) un eventuale micromosso dovuto all’uso a mano libera può essere del tutto inavvertibile, mentre apparirebbe evidente su una fotografia digitale, che viene giudicata portandola al 100% sullo schermo del computer.
Lo stesso una nitidezza approssimativa dovuta a una messa a fuoco imprecisa: su una stampa di piccolo formato tutto sembra nitido; se il diaframma è stato chiuso a sufficienza la profondità di campo appare illimitata (mentre in realtà il piano di messa a fuoco è sempre uno solo).
Da questo è nata la diceria (ripetuta ancora oggi da chi copia quanto scritto da altri senza verificare l’esattezza delle informazioni) secondo cui la tecnica dell’iperfocale permetterebbe di avere “tutto a fuoco” dal primo piano all’infinito.
Un altro vantaggio è rappresentato dal fatto che lavorando su pellicola si impara dai propri errori più in fretta e più facilmente che non fotografando in digitale.
Può sembrare paradossale ma è così che funziona.
Il principiante che sbaglia una foto digitale non si chiede perché ha sbagliato: la cancella e la rifà modificando i parametri di scatto (spesso a caso), oppure cerca di aggiustarla con Photoshop.
Chi sbaglia lavorando su pellicola è costretto a rendersi conto dei propri errori (e a pagarli con i propri soldi!), per cui diventa più attento e consapevole prima di premere il pulsante di scatto.
E questo rappresenta un potente stimolo a migliorare.

Che cosa possiamo suggerire a chi desideri tuffarsi nei sali d’argento?
Beh, se proprio volete fare il grande passo, allora fatelo che merita e sperimentate la fotografia in grande formato con apparecchi a corpi mobili.
Oggi un banco ottico da studio o una folding in legno (tipo Tachihara, Ebony o ShenHao) si trovano a prezzi ragionevoli.
Meno facile procurarsi i materiali sensibili, ma chi sa cercare può trovare ottime soluzioni, anche se l’offerta è molto più ristretta che in passato.
Il problema è lo sviluppo: sono ormai pochissimi i laboratori che stampano da negativo, e ancor meno quelli che trattano le pellicole piane.
Ma questo non è un ostacolo per chi è spinto da un vero spirito di ricerca e sperimentazione: quale occasione migliore per procurarsi un vecchio ingranditore e tutti gli strumenti necessari per sviluppare e stampare in proprio?

Conosco già l’obiezione: “Ma come, ci suggerisci di sperimentare il grande formato proprio tu che pubblicasti su Nadir un articolo che scoraggiava i neofiti dall’affrontare questo tipo di fotografia, esortando drasticamente a lasciar perdere?”
Sì, lo ricordo, e ricordo anche gli insulti e i cori di protesta che mi furono rivolti dagli “irriducibili”, ma non è una contraddizione.
All’epoca sconsigliai (e tutt’ora sconsiglio) il grande formato al neofita che intenda iniziare da zero, non solo per la difficoltà nel procurarsi i materiali, ma anche e soprattutto per l’impegno e lo studio che questo tipo di fotografia richiede: a chi si accosta per la prima volta al mondo della fotografia raccomando senza alcuna esitazione l’acquisto di una fotocamera digitale e l’abbonamento al “pacchetto” Photoshop.
Ma il fotografo già esperto nell’uso del digitale, che conosce i concetti di esposizione, messa a fuoco e sviluppo dell’immagine (purché sia motivato dalla necessaria curiosità e da un non trascurabile spirito di avventura), può sperimentare con soddisfazione questo modo “antico” – ma per lui nuovo – di comunicare con le immagini.

Alla prossima.