Michele Vacchiano Cultural Photography

L'articolo del mese

OTTOBRE 2021

Il focus stacking

Un’immagine in cui tutto sia a fuoco dal primo piano allo sfondo genera un tipo di visione estraneo alla nostra esperienza quotidiana e per ciò stesso spettacolare.
Per capire i princìpi e la teoria su cui si basa questo tipo di visione, dobbiamo però fare un passo indietro, non tanto nel tempo quanto nelle nostre conoscenze di fotografia.

Prima della rivoluzione digitale, l’unico sistema possibile per ottenere il “pareggiamento della nitidezza” (così si chiama la tecnica) consisteva nell’utilizzo di un apparecchio a corpi mobili, o a banco ottico.
In queste macchine, il basculaggio (inclinazione) del corpo anteriore (eventualmente unito al basculaggio opposto del corpo posteriore) contribuisce a incrementare la nitidezza del campo inquadrato, dal primo piano allo sfondo, grazie all’applicazione della “regola di Scheimpflug”.
La regola di Scheimpflug recita che quando il piano del soggetto, il piano dell’ottica e il piano focale (quello su cui giacciono la pellicola o il sensore) si incontrano generando un’unica retta, tutto il campo inquadrato risulta a fuoco, indipendentemente dal diaframma utilizzato.
Questo significa che la profondità di campo così ottenuta è reale, e non apparente, come invece avviene chiudendo il diaframma.
La retta generata dall’incontro dei tre piani è chiamata “retta di Scheimpflug” (nel disegno sotto raffigurata in sezione, e quindi come un punto).

Il gioco funziona però su un solo piano, o al massimo su due, a patto che siano tra loro perpendicolari.
Nella fotografia qui sopra, la standarta anteriore è stata basculata in avanti per pareggiare la nitidezza sul piano del selciato, e anche verso destra per mantenere nitidi i pilastri.
Ovviamente il muro a sinistra appare meno definito.
La regola di Scheimpflug trova la sua più interessante applicazione nella tabletop photography e nello still-life.
Ma anche nel paesaggio, quando si vogliano mantenere nitidi i piani principali dell’immagine, e soprattutto nella fotografia di architettura, dove l’uso dei corpi mobili trova la sua più specifica applicazione.

La fotografia qui sopra (Il “Ponte del diavolo” a Lanzo Torinese) è stata ottenuta con un doppio basculaggio: in avanti e verso destra, per mantenere nitide le pietre della spalletta del ponte in primo piano fino all’arco in pietra e alle rocce di sfondo.
Ciò che una fotocamera a corpi fissi non riuscirebbe a riprendere senza creare una vasta area di sfocatura, diventa nitido grazie alla regola di Scheimpflug (sotto).

Con le normali fotocamere è impossibile ottenere un simile risultato, a meno di ricorrere agli obiettivi basculabili.
Il limite di questi obiettivi è rappresentato dal fatto che il mirino (ma anche il display, tanto reflex quanto mirrorless) è troppo piccolo per valutare con precisione il campo di nitidezza.
In teoria, sarebbe possibile usare il live-view e ingrandire ogni singola porzione dell’immagine, ma si tratta di una procedura lunga e macchinosa, oltre che poco affidabile.

Il focus stacking rimedia a questo limite, con il vantaggio di poter pareggiare la nitidezza non più su un solo piano (o su due, tra loro perpendicolari), ma su tutto il campo inquadrato.
Trova applicazione soprattutto nella macro, dove ricorda le immagini incredibilmente nitide ottenute ricorrendo ai microscopi a scansione.

La sua applicazione nella fotografia di paesaggio lascia invece qualche dubbio: in realtà, lo stacco dei piani e la sfocatura graduale degli elementi che si allontanano dal punto di messa a fuoco contribuiscono a migliorare la godibilità della fotografia, restituendo alla scena la giusta tridimensionalità.
Nella fotografia che segue, il forte stacco tra i piani dell’immagine identifica con sicurezza il soggetto, pur mettendolo in relazione con l’ambiente, e crea una netta impressione di profondità spaziale.

Al contrario, un’immagine tutta a fuoco appare estranea alle nostre abitudini percettive, anche se in certi casi (come quello illustrato qui sotto) può generare effetti spettacolari.

Il procedimento consiste nello scattare diverse fotografie, con la macchina sul cavalletto, modificando a ogni scatto il piano di messa a fuoco, per poi unire i diversi file mediante appositi software.

Attenzione!
Se si fotografa da vicino, la rotazione della ghiera di messa a fuoco provoca anche un’alterazione delle dimensioni del soggetto, causata da un’effettiva variazione del rapporto di riproduzione e della focale dell'obiettivo (ne parleremo meglio alla fine).
Pertanto, in macrofotografia è indispensabile mantenere costante il rapporto di riproduzione (cioè lasciare fissa la ghiera di messa a fuoco) e spostare il piano di nitidezza mediante una slitta micrometrica.
A distanze medio-lunghe si può usare invece la rotazione della ghiera: le differenze di inquadratura saranno meno evidenti e potranno essere compensate dal software (con gli effetti collaterali che vedremo in seguito).

Esistono diversi software in grado di effettuare la fusione delle immagini: Helicon Focus, CombineZP, Zerene Stacker…
Ma la soluzione più semplice per chi usa i programmi Adobe è utilizzare Photoshop.
Di seguito illustriamo la procedura corretta.

- Carico le immagini.

- Le apro in Camera Raw o Lightroom e le seleziono tutte.

- Le apro in Photoshop.

- Script > Carica file in serie.

- Aggiungi file aperti > OK.

- Il software trasforma ogni immagine in un livello.

- Seleziono tutti i livelli (Shift).

- Modifica > Allineamento automatico livelli.

- Proiezione automatica > OK.

- Il software allinea i livelli compensandone anche le dimensioni.

- Modifica > Fusione automatica livelli.

- Crea serie di immagini > OK.

- Unisco i livelli.

- Salvo nel formato voluto.

Tutto bene, dunque?
Purtroppo no.
Abbiamo accennato prima alla variazione della lunghezza focale dell’obiettivo nel momento in cui si modifica la messa a fuoco.
Questo fenomeno (focus breathing) dipende dal fatto che la lunghezza focale di qualunque obiettivo (riferita sempre all’infinito) può variare in modo tanto più sensibile quanto più si riduce la distanza di messa a fuoco.
Un problema ben noto ai videomaker: cambiando il fuoco durante una ripresa video (focus racking) si rischia di ottenere un indesiderato “effetto zoom” (a meno di utilizzare ottiche molto costose appositamente progettate per evitare il fenomeno).
Anche nel nostro caso, un obiettivo con un focus breathing pronunciato può complicare la fase di ricombinazione delle immagini, perché l’angolo di campo e il rapporto di ingrandimento tra un fotogramma e l’altro non rimarranno costanti.

Ora, è vero che – come abbiamo visto – il software è in grado di ridimensionare gli scatti in modo da renderli omogenei, ma qui sorge un nuovo problema.
Il ridimensionamento dei singoli file provoca inevitabilmente l’insorgere di artefatti, che potrebbero diventare visibili a un ingrandimento del 100%.
Per questo, quando si cede al cliente una fotografia realizzata con questa tecnica, è bene ridurne le dimensioni, allo scopo di rendere meno evidenti eventuali artefatti.
Se il cliente è esperto, infatti, valuterà la nostra immagine visualizzandola al 100% sullo schermo del computer (come fanno le agenzie di stock), e questo rivelerà impietosamente tutti i difetti, anche minimi.
Ridurre le dimensioni dell’immagine aiuta a nascondere gli artefatti e non costituisce un problema se si usano sensori a elevata risoluzione: ben raramente il cliente richiederà un file da stampare in formato poster a 300 dpi.
A maggior ragione risulta vantaggioso ridurre le dimensioni del file quando si intende pubblicare l’immagine sul web o stamparla in dimensioni ridotte (ad esempio a mezza pagina su una rivista).

Perciò, occhio a non entusiasmarvi troppo quando vedete esempi di focus stacking pubblicati sul web: sullo schermo del computer le foto sono tutte belle, ma se volete essere concorrenziali sul mercato, quello vero, dovete saper produrre risultati che anche su una stampa di medie dimensioni possano apparire vendibili.

Alla prossima.