Michele Vacchiano Cultural Photography

Insegnare fotografia: la "rivoluzione copernicana"

Il mio modo di fare e insegnare fotografia presuppone una sorta di "rivoluzione copernicana", un capovolgimento di mentalità che sappia mettere al centro del procedimento fotografico non più il soggetto, ma il fotografo.

Contrariamente a quanto un diffuso pregiudizio ancora induce a credere, la fotografia non rappresenta la realtà, ma traduce visivamente la curiosità stupefatta con cui l’artista guarda il mondo, filtrando e poi trasfigurando - attraverso la sua particolare sensibilità ed esperienza - le emozioni, le sensazioni e i ricordi che un paesaggio, un luogo o un oggetto hanno saputo evocare in lui.

La fotografia trasfigura il mondo reale svelandone magicamente quegli aspetti che la nostra razionalità ci impedisce di cogliere.
E in questo modo il fotografo offre allo spettatore una proposta di lettura che questi sarà chiamato a confrontare con la propria visione del mondo, spesso attribuendo all’opera nuovi significati e nuove corrispondenze che il suo creatore non aveva neppure lontanamente previsto.
In altre parole, ciò che lo spettatore è chiamato ad analizzare quando osserva una fotografia non è l'immagine di un albero, di una casa, di un elefante o di una modella, bensì il rapporto che il fotografo ha saputo instaurare con l'albero, la casa, l'elefante o la modella; è lo stile con cui ha affrontato e risolto il problema fotografico che quei soggetti ponevano in essere; sono le modalità con cui - attraverso la rappresentazione del soggetto - è stato in grado di comunicare la propria intima visione del mondo.

Il soggetto diventa così il semplice pretesto di una comunicazione che riguarda non più la realtà fenomenica, esterna all'uomo, ma l'uomo stesso (inteso come io comunicante) e il suo mondo interiore.

Semiologicamente parlando, la fotografia è un codice di comunicazione, grazie al quale il fotografo affida valore di segno a pezzi di realtà che di per se stessi ne sono privi e che il gioco semiotico trasforma in centri portanti del messaggio iconico.
Un'opera creatrice che - così come la letteratura o la musica - comunica da un lato le possibilità del codice stesso, dall'altro la maestria con cui l'artista ha saputo piegare il codice alle proprie esigenze espressive.
In una parola, il suo stile.

Per questo la fotografia - come del resto ogni forma d'arte - non può prescindere da un totale, profondo, spesso devastante coinvolgimento emotivo.
Un coinvolgimento che è prima di tutto intima comunicazione, compassione (nella sua accezione etimologica di "sentire insieme"), colloquio silenzioso, non mediato da segni umani, che si instaura tra fotografo e soggetto.
Un soggetto che non va conquistato o catturato alla stregua di una preda (l'espressione "catturare l'immagine" è quanto di più lontano possa esistere dal mio modo di pensare), ma essenzialmente capito e conosciuto, grazie all'instaurarsi di un dialogo a doppio senso: condizione irrinunciabile per poter costruire, in seguito, un corretto rapporto semiotico tra fotografo e spettatore.

Se voglio fotografare un albero o una montagna, io devo farmi albero o montagna; devo diventare l'animale selvatico che ho di fronte, sentirmi uno con la sua vitalità e il suo modo di essere.
Il pittore Antonio Ligabue si identificava a tal punto con gli animali feroci che dipingeva da assumerne gli atteggiamenti. Come ricorda Renato Mazzacurati (che lo conobbe nel 1928 e lo portò alla fama), Ligabue "Ruggiva spaventosamente, e imitava il leone, la tigre, il leopardo nell'atto di azzannare la preda".

Questo implica, come abbiamo detto, uno sforzo emotivo.

Ma richiede anche un non indifferente impegno intellettuale.
Prima di fotografare bisogna studiare!
Studiare la storia dell'arte se si vuol essere fotografi di architettura, l'anatomia umana se si vuol fare i ritrattisti, la zoologia e la botanica se si ci vuole dedicare alla fotografia della natura.
Non c'è professionalità senza specializzazione, e questo è essenzialmente il motivo per cui le agenzie più serie tendono a scartare chi propone di tutto un po', preferendo invece i fotografi monotematici.
Se le mie fotografie di stambecchi sono migliori di quelle della concorrenza è soltanto perché io conosco le abitudini di questi animali e so come entrare nel branco senza disturbarne l'armonia. Un risultato che è frutto, al tempo stesso, di studio, di esperienza e di capacità di identificazione/compassione.

Quanto detto vale anche per quello che è considerato - a torto - il più semplice dei generi fotografici, e cioè il paesaggio.

In realtà fotografare un luogo significa entrare in sintonia non soltanto con la sua conformazione geografica, ma anche con la sua “anima”, fatta di suggestioni, di odori, di suoni.
E poiché ben poche zone al mondo sono ormai esenti dai segni della presenza umana, fotografare un luogo implica il saperne cogliere la storia, la cultura, l’impronta tutta speciale che millenni di antropizzazione vi hanno lasciato.

Anche in questo caso la preparazione, lo studio e la ricerca fanno la differenza.
Chi vede un bel paesaggio, ferma l’auto, fotografa e prosegue la sua corsa otterrà forse una suggestiva cartolina, ma non molto di più.
Fermarsi in un luogo, visitarlo, parlare con la gente, consultare una guida storico-artistica costituisce invece la premessa ideale per fotografie capaci di “raccontare” il territorio.
Non si può raccontare un territorio senza prima averne assimilato lo spirito, quello che i latini chiamavano il genius loci.
E dato che il genius loci è fatto soprattutto di cultura e di vita, ecco che gli aspetti culturali assumono un’importanza fondamentale.
Chi fotografa le Alpi sa bene che anche in territori apparentemente “selvaggi” la presenza umana è sempre avvertibile, anche se discreta.
Lo stesso sentiero su cui si cammina, formatosi su antiche vie di transumanza; i cumuli di pietre tolte dal pascolo e ordinatamente disposte; i ricoveri temporanei ottenuti chiudendo con un muretto a secco la cavità naturale formata da una roccia sporgente dimostrano come fino al limite dei ghiacciai perenni, e a volte anche oltre, la vita e il lavoro dell’uomo abbiano lasciato la loro impronta.
Entrare in rapporto con questa vita e questo lavoro è un passaggio irrinunciabile, una condicio sine qua non per il fotografo di ambiente.
Di più, non dimentichiamo che la cultura dell’uomo è anche fatta di usanze, costumi, cucina e vini: conoscere davvero un territorio vuol dire saper approfondire anche questi aspetti, che a noi uomini tecnologici possono apparire marginali, o tutt’al più relegati nell’ambito del folclore, ma che rappresentano elementi fondanti del vivere civile e aspetti primari dell’appartenenza ad una comunità per chi vive ancora in modo autentico e non virtuale.
Il vino, l’ulivo, la fabbricazione dei formaggi sono realtà dalle quali non può prescindere chi voglia fotografare col cervello e con il cuore, oltre che col dito indice.
Insomma, fotografare un territorio vuol dire prima di tutto essere capaci di assaggiarlo, odorarlo, farlo proprio. Infine, amarlo.

Questa è la fotografia, quella vera, quella che permette allo spettatore di conoscere e capire perché, prima di lui, c’è stato un fotografo che ha lavorato, che ha vissuto, che ha pagato di persona e che talvolta ha sofferto per arrivare a conoscere e capire.
Questa è la vera avventura.
Un’avventura interiore che ci cambia e ci arricchisce e che possiamo affrontare, volendo, senza mai allontanarci dalla regione che ci ha dato i natali.
L’importante non è viaggiare sulla superficie della Terra, ma avere il coraggio di immergersi nel profondo di se stessi.
E il fatto che questo genere di fotografo continui - a dispetto delle mode e del mercato - a curare con pignoleria l'esposizione, a ricercare incessantemente il risultato più consono al suo sentire, ad utilizzare talvolta un pesante e ingombrante apparecchio a corpi mobili per controllare ogni parametro dello scatto e godere della più totale libertà creativa, o ancora a trascorrere ore su Photoshop alla ricerca dell'interpretazione migliore, la sola capace di tradurre ciò che egli aveva davvero visto (non necessariamente con gli occhi) convincendosi che quel soggetto meritasse una foto, significa soltanto che il suo modo di fotografare, gli strumenti che usa, la concentrazione e le capacità non solo tecniche che egli mette in gioco non sono altro che il naturale complemento della sua sensibilità, del suo stile, della sua ribelle, profonda, a volte sofferta e tormentata visione del mondo e della vita.

Ma tutto questo diventa impossibile quando il presupposto iniziale (o meglio il pregiudizio iniziale) è costituito dall'alterità del soggetto, dal considerarlo diverso, alieno, esterno-a-sé e pertanto non coinvolgente, al punto che ci si sente in diritto di catturarne l'immagine con qualunque mezzo, a qualunque prezzo (e questo vale non soltanto per i fotografi naturalisti che non esitano a recar disturbo agli animali pur di assicurarsi una fotografia da vendere, ma anche e soprattutto per coloro che in nome dello scoop e di un mistificato diritto all'informazione violano l'altrui intimità e l'altrui dolore).
Porre l'accento sul soggetto significa di fatto considerarlo come elemento esterno, o meglio estraneo e per ciò stesso conquistabile; mettere al centro il fotografo significa capire che la vera comunicazione - riguardando noi stessi - richiede da parte nostra uno sforzo di conoscenza, di interiorizzazione e di coinvolgimento che certamente si rivelerà costoso, ma che ci consentirà di strutturare un messaggio realmente nostro e originale.
Nel primo caso avremo ottenuto una semplice, fredda, banale cartolina.
Nel secondo, avremo fatto cultura.

Fotografare creativamente significa fare il vuoto dentro se stessi, raggiungere uno stato dell'animo affine alla meditazione, liberare le propria mente e lasciare che il soggetto (o meglio l'immagine mentale, l'eikon, che ci siamo fatti di lui) la pervada e la occupi nella sua interezza.
Esiste una parola zen, mushin, che esprime la totale coincidenza fra l'uomo e il mondo, tra chi osserva e la realtà osservata (il che, a ben pensarci, rappresenta il superamento di quel dualismo così saldamente connaturato col pensiero occidentale).

Come l'arciere zen, che scocca soltanto quando la sua mente, la freccia e il bersaglio sono divenuti una cosa sola, così il fotografo è chiamato a identificarsi con il soggetto, in un momento di totale comunione (ancora una volta "compassione") che è - essenzialmente - conoscenza.
Che si tratti di un paesaggio o di un animale, di un'architettura o di una persona umana, ciò con cui avremo a che fare non sarà più un pezzo di mondo esterno da raffigurare su una stampa bidimensionale, ma un'esperienza interiore capace di cambiarci, un insieme complesso di significati che non soltanto deve essere conosciuto per venire fotografato, ma che essendo fotografato viene conosciuto e tradotto in comunicazione visiva.

In un mondo sospeso fra l'aridità tecnologica fine a se stessa e il raggiungimento a tutti i costi di un risultato vendibile io propongo un nuovo umanesimo della fotografia, capace di capovolgere rapporti e valori, per riportare in primo piano il vero significato del comunicare.

Chi avrà il coraggio di affrontare questa "rivoluzione copernicana" dovrà accettare le necessarie conseguenze che essa trascina con sé, conseguenze capaci di mettere in discussione ciò che si credeva di avere acquisito non solo dal punto di vista tecnico ma anche e soprattutto da quello estetico e compositivo.

La prima di esse comporta, da parte del fotografo, un nuovo modo di rapportarsi ai propri strumenti di lavoro e alle conoscenze tecniche necessarie per farli funzionare.
Se è vero che la fotografia è una forma di comunicazione, è anche vero che la realizzazione di immagini implica l'inevitabile utilizzo di attrezzature e di tecnologie.
Anche in questo caso è indispensabile capovolgere l'approccio tipico del principiante, che sempre manifesta una certa qual dipendenza dal mezzo tecnico, visto di volta in volta come aggeggio un po' misterioso e talvolta imprevedibile, quasi dotato di vita propria, oppure come strumento imperfetto che permetterebbe forse risultati migliori se fosse più grande, più nuovo, più sofisticato, più costoso.
L'idea che esistano macchine "professionali" è tanto sciocca quanto indelebilmente radicata nella coscienza collettiva dei fotodilettanti.

Ciò che in realtà distingue la fotografia amatoriale dalla fotografia professionale non è il mezzo, ma l'uso che se ne fa.
E proprio perché stiamo parlando di un sistema di comunicazione, diventa quasi intuitivo concludere che soltanto la perfetta conoscenza dei propri strumenti di lavoro, delle loro possibilità e dei loro limiti è in grado di garantire quei risultati espressivi che permettono al fotografo di dire quello che vuole lui e non quello che vuole la macchina.

Ogni volta che il fotografo si chiede come regolare il flash o quale bottone azionare per impostare la modalità program, rende di fatto impossibile una vera comunicazione con il soggetto: la macchina diventa non più un tramite ma un impaccio, un ostacolo da superare.
Per questo è importante impadronirsi delle procedure d'uso del proprio apparecchio ed interiorizzarle fino a renderle istintive.
Bisogna arrivare a sentire la macchina come parte del corpo e del cervello, anzi, bisogna arrivare a non sentirla affatto: essa deve diventare un mezzo trasparente, privo di corporeità e di peso.
In questo modo nulla si frappone tra fotografo e soggetto e la comunicazione scorre libera.
Le ali di Icaro, non l'elicottero a ruote dentate di Leonardo.

Senza dimenticare, peraltro, la conoscenza dei procedimenti fisici e chimici che stanno alla base della creazione dell'immagine.
Queste nozioni, lungi dal rappresentare un narcisistico sfoggio di tecnicismo, costituiscono la base di quell'esperienza che porta il fotografo a dominare i propri mezzi espressivi evitando di esserne dominato.

A questo proposito voglio suggerire uno spunto di riflessione.
Quando le riviste di fotografia pubblicano le "prove su strada" di nuovi obiettivi, corredano solitamente l'articolo con fotografie banali e insignificanti.
Se ad esempio l'autore dell'articolo vuole illustrare l'angolo di campo di un obiettivo grandangolare, si affaccia alla finestra di casa sua e fotografa il palazzo di fronte.
E' un pigro? E' un incapace?
Niente di tutto questo: semplicemente vuole che il lettore non rimanga distratto dall'osservazione di un bel soggetto ma si concentri soltanto su quello che effettivamente deve vedere: quanto inquadra il grandangolo.
Quando il principiante acquista un nuovo obiettivo o una nuova macchina si comporta, più o meno consapevolmente, nello stesso modo: fa delle prove, il che significa concentrarsi sul mezzo tecnico e sulle sue prestazioni piuttosto che sull'immagine.
E' giusto che sia così: si tratta di una fase indispensabile alla conoscenza dei propri mezzi di lavoro.
Ma si tratta di una fase che è - e deve rimanere - iniziale e transitoria.
Che cosa succede a coloro che sono costantemente in caccia dell'ultima novità?
Quelli che vanno in crisi se non seguono con pignoleria quasi maniacale tutti gli upgrade che le case propongono e danno fondo ai loro risparmi per assicurarsi l'ultimo modello di quella tale reflex che consente qualche prestazione in più rispetto al modello in uso?
Succede che per tutta la vita continueranno a fare prove, ma nessuna vera fotografia.

Ecco, quando scopro che tra i miei allievi ci sono amatori di apparecchiature fotografiche, comunico loro senza mezzi termini che hanno sbagliato corso e insegnante: perché io parlo di fotografia e non di strumenti.

Io insegno a fotografare partendo dalle attrezzature che ciascuno possiede, si trattasse anche di una compatta o di una usa-e-getta.
E a chi mi obbietta che la compatta ha dei limiti rispondo che la cosa non mi impressiona affatto: anche il banco ottico ha i suoi.

Perciò quando qualcuno mi domanda se sia meglio questo o quello zoom io di solito non rispondo, prima di tutto perché realmente non lo so, poi perché non me ne importa un accidente.
I clienti comprano le mie fotografie quando le giudicano belle e tecnicamente ineccepibili, ma a nessuno di loro viene in mente di chiedermi con che macchina o con quale obiettivo le ho scattate, se non a titolo di pura curiosità.

Una seconda conseguenza di questo approccio "umanistico" alla fotografia coinvolge le tecniche e le procedure per determinare la corretta esposizione.

Contrariamente a quanto la manualistica destinata ai principianti frettolosamente insegna, la "corretta esposizione", intesa in senso assoluto, non esiste.
Questo perché lo stesso soggetto può assumere significati diversi a seconda di come viene letto, interpretato e quindi esposto.
In altre parole, per ogni soggetto esiste una quantità virtualmente infinita di esposizioni possibili, ognuna delle quali è in grado di raccontare qualcosa di peculiare e caratteristico.

Chi non è convinto di quanto affermo, immagini di trovarsi in un bosco, là dove la luce solare che filtra fra i rami crea sul terreno macchie di luce accecante alternate a voragini di ombra profonda.
Nessuna pellicola e nessun sensore sono in grado di tradurre correttamente questo elevatissimo contrasto tonale, per cui sarà necessario effettuare una scelta: esporre per le luci, lasciando che le ombre si perdano nel nero assoluto, oppure esporre per le ombre, lasciando che le alte luci "brucino" nel bianco assoluto.
Entrambe le scelte sono "giuste" (l'unica scelta sbagliata sarebbe fare una media), ma si tratta di scelte che coinvolgono soprattutto la composizione, più che non la scelta della coppia tempo-diaframma: in entrambi i casi, infatti, il fotografo curerà l'inquadratura in modo che le aree illeggibili (i neri "tappati" e i bianchi "bruciati" rispettivamente) occupino una parte non significativa della composizione.
La scelta espositiva diventa così funzione della scelta compositiva: sarà stato il fotografo, e nessun altro, a scegliere l'elemento a cui dare importanza, non perché condizionato da un esposimetro, ma perché guidato dalla sua creatività.

Questo dimostra, se mai ve ne fosse bisogno, che la coppia tempo-diaframma decisa dall'esposimetro deve sempre (sempre, non solo in caso di controluce o di condizioni difficili) essere sottoposta a revisione e adattata alle esigenze di comunicazione del fotografo.
Il concetto fondamentale, che solitamente sfugge al principiante, è che la quantità di luce che giunge alla pellicola non costituisce un parametro assoluto, dipendente in maniera meccanica dalla quantità di luce riflessa dal soggetto (e pertanto misurabile), ma è una scelta espressiva.
E in quanto tale non si misura.
Si decide.

La domanda giusta non è perciò "Qual è l'esposizione corretta per questo soggetto?", ma bensì "Qual è l'elemento dell'inquadratura al quale voglio dare la massima leggibilità?", o, in parole più tecniche, "Dove voglio far cadere il grigio medio?".
Solo a questo punto si potrà misurare la luce, per verificare quanto le diverse aree dell'inquadratura si discostano dal grigio medio e quanto occorre correggere per ottenere un'immagine i cui rapporti tonali coincidano con quelli dell'immagine mentale (l'eikon, ancora una volta) che ci eravamo fatti del soggetto.

C'è una parola del greco antico, techne, il cui significato è tanto "arte", "attività artistica" quanto "tecnica", "lavoro manuale".
Anche l'artifex latino era allo stesso tempo artista e tecnico.
I due significati rimasero immutati, nella coscienza dell'Occidente classico e cristiano, per tutta l'antichità e il Medioevo.
Soltanto nel Rinascimento l'artigiano, il tecnico da un lato e l'artista dall'altro incominciarono ad intraprendere strade che oggi sentiamo come distanti e inconciliabili.

Ma se esiste una forma di comunicazione che ancora riunisce in sé i due antichi significati, questa è proprio la fotografia.
Nessun artista è costretto a fare i conti con strumenti così tecnologicamente complessi, mentre nessun tecnico riesce a piegare i propri mezzi di lavoro all'espressione di contenuti tanto profondi.
Per questo la fotografia - snobbata di volta in volta sia come forma d'arte che come tecnologia, relegata dagli uni nel cantuccio delle arti minori, dagli altri tra le tecnologie imperfette - merita la considerazione dovuta ad un'attività dello spirito umano unica ed irripetibile, le cui peculiari caratteristiche non trovano né possono trovare termini di paragone adeguati.

Michele Vacchiano © 1989-2014.

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